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Perché il leader del Cremlino è il vincitore del summit di Helsinki

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l’incontro putin-trump

Perché il leader del Cremlino è il vincitore del summit di Helsinki

Da ciò che è stato detto di concreto dai protagonisti del vertice e dai loro portavoce, è difficile capire i temi veramente affrontati e le eventuali decisioni prese da Putin e Trump. In condizioni diplomatiche normali, dopo avere elencato i problemi, i due presidenti si sarebbero limitati a raggiungere l’obiettivo minimo possibile, dopo tanto gelo: creare le premesse per la continuazione del dialogo avviato. Una visita del russo a Washington, seguita da quella dell’americano a Mosca o viceversa. Giusto per consolidare il necessario dialogo diretto iniziato lunedì.

Ma questi non sono tempi normali. Non possono esserlo se nei mesi precedenti a Helsinki Donald Trump aveva detto di essere favorevole all’annessione russa della Crimea e alla cancellazione delle sanzioni economiche; favorevole a riconoscere la legittimità del regime Assad dopo la fine della guerra in Siria; a delegittimare il sistema multinazionale del G7, della Nato, della Ue: istituzioni che prima dell’avvento di Trump nessuno detestava quanto Vladimir Putin.
Come aveva detto la settimana scorsa il portavoce del presidente russo, Dmitry Peskov, «nel mondo c’è una domanda di speciali leader sovrani, leader decisi che non stanno negli schemi convenzionali. La Russia di Putin è stata il punto di partenza». Se dunque questo vertice ha avuto un vincitore, più scontato della Francia ai Mondiali, quello è Vadimir Putin.

Gli Stati Uniti guidano alleanze di varia natura in tutto il mondo: al dipartimento di Stato il libro che le elenca insieme ai trattati e agli accordi bilaterali, è un tomo di centinaia di pagine. Gli Usa sono la superpotenza economica (la Cina è ancora distante) e militare. La maggioranza dei primi dieci ”ecosistemi” al mondo per la creazione di startup, cioè d’idee, è in America.

La Russia non ha alleati, solo qualche sottomesso; le sue spese militari equivalgono al semplice aumento delle americane di quest’anno; la sua economia è più piccola di quella del Michigan e non ha industria manifatturiera né beni di consumo ma molti oligarchi; i giovani dell’hi-tech emigrano. Solo in arsenali nucleari i due Paesi si equivalgono.

Per questo il vertice di Helsinki è stato prima di tutto un successo per Putin indipendentemente da ciò che si è detto e deciso: un affare per il semplice fatto che con un summit - sembra richiesto da Trump - la Russia sia stata posta sullo stesso livello dell’America.

E in effetti è così: l’attore protagonista della scena globale è la Russia di Putin, non l’America di Trump. Se lo è a dispetto delle differenze appena elencate, dipende dalla sua brutale determinazione nel raggiungimento degli obiettivi, la sua duttilità diplomatica, l’assenza di parlamenti e opinioni pubbliche cui rendere conto. E in gran parte lo è anche grazie a Donald Trump. Un presidente che delegittima la Nato, l’alleanza che Putin non avrà mai; che definisce «nemico» la Ue temuta dal russo più che dall’americano; che dà la colpa agli Usa se le relazioni con la Russia vanno male: un presidente così fatalmente consegna il summit e soprattutto il futuro all’avversario. Posto che diversamente dalla sua amministrazione, Trump abbia mai considerato Putin un avversario.

Della decisione di Robert Muller d’incriminare alla vigilia di un vertice 12 agenti russi per hacking durante le presidenziali del 2016, si può discutere la tempistica. Più difficilmente i contenuti, le prove raccolte e gli arresti finora eseguiti. A credere nel cinismo come parte essenziale della politica, anche in questo Putin svetta sull’inesperto e tuttavia presuntuoso Trump. Per il presidente russo la geopolitica è un gioco a somma zero: la Russia vince, gli altri perdono. Per l’americano, geopolitica è quasi un oggetto misterioso: per lui è uscire da questioni come Ucraina e Siria dove “America first” non ha nulla da guadagnare. O stabilire amici e nemici sul calcolo dell’interscambio commerciale.

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