La locomotiva americana continua a tirare, anche se a luglio l’indice manifatturiero Ism è sceso a 58,1 dal precedente 60,2. L’Eurozona dà segnali di frenata - con una performance nel secondo trimestre ai minimi da due anni (+0,3% sui primi tre mesi) -, sia pure con segnali di stabilizzazione trascinati dai Paesi più forti, con l’indice Ihs Markit in lieve ripresa a luglio a 55,1 dai minimi da 18 mesi di giugno a 54,9. È dall’Asia che più si moltiplicano i segnali di rallentamento economico, che molti osservatori attribuiscono almeno in parte a un indebolimento del commercio globale, messo sotto pressione dalle mosse sui dazi dell’amministrazione Trump e dalle conseguenti reazioni.
Anche ieri i mercati finanziari hanno dovuto cercare di «digerire» notizie di portata potenzialmente negativa, come quella secondo cui Trump si è orientato ad appoggiare l’idea di imporre dazi più alti di quanto atteso (non del 10%, ma del 25%) su importazioni dalla Cina per ulteriori 200 miliardi di dollari, oltre a quelli del 25% già in atto su un ammontare di 34 miliardi e quelli simili su altri 16 miliardi che dovrebbero formalizzarsi la prossima settimana. Un’indicazione cui Pechino ha subito reagito respingendo ogni «ricatto» e promettendo ritorsioni adeguate. D’altra parte, sono emerse anche voci secondo cui Usa e Cina starebbero tentando di riallacciare il filo di un dialogo che, ai più alti livelli, si è interrotto da ormai due mesi. Intanto l’indice manifatturiero cinese Pmi Caixin-Markit ha evidenziato a luglio un calo ai minimi da otto mesi, scendendo a una lettura di 50,8 dal 51 di giugno, con i nuovi ordini per l’export in discesa al ritmo più veloce degli ultimi due anni.
Martedì il Politburo di Pechino ha deciso di enfatizzare la realizzazione di «politiche fiscali pro-attive» e di intensificare le spese per infrastrutture all’evidente fine di sostenere la congiuntura, segnalando anche una frenata alla campagna di contenimento della crescita del debito nell’economia (la politica monetaria dovrà restare «prudente», ma è caduto l’aggettivo «neutrale» finora utilizzato). Il rallentamento dell’attività manifatturiera si estende agli altri Paesi asiatici. In Giappone l’indice Nikkei-Markit del settore ha frenato a 52,3, i minimi da 11 mesi, con i nuovi ordini all’industria che si muovono al passo più lento dall’ottobre 2016. In Corea del Sud il comparto manifatturiero si è contratto a luglio per il quinto mese consecutivo, con un Nikkei-Markit Pmi a quota 48,3, mentre anche la regione Asean accusa nel complesso un rallentamento da 51 a 50,4.
Tendenza che si conferma in India, dove comunque ieri la banca centrale ha nuovamente alzato i tassi - di 25 punti base al 6,5% - per contenere le spinte inflazionistiche e sostenere la rupia. Il governatore della Reserve Bank of India, Urjit Patel, ha sottolineato la necessità di assicurare la stabilità macroeconomica in un contesto in cui i contrasti sul commercio «si sono sviluppati in guerre sui dazi, con la possibilità di guerre valutarie».
I rischi «downside» legati all’impatto sul trade dei contenziosi sono da ultimo segnalati in un rapporto della Japan External Trade Organization, che conferma la robusta crescita del’interscambio internazionale fino alla scorsa primavera: il commercio globale di merci è aumentato nel 2017 in valore nominale del 10,5% a 17.300 miliardi di dollari (migliore performance dal 2011) e ha accelerato la sua crescita a doppia cifra nel primo trimestre 2018 .
Si moltiplicano anche gli studi che avvertono sulle incongruenze di una linea statunitense troppo dura sui dazi. Adam Slater di Oxford Economics, ad esempio, argomenta che in uno scenario di ulteriori dazi anticinesi del 10% su 200 miliardi di import, il deficit commerciale Usa con Pechino scenderebbe di quasi 90 miliardi di dollari, ma nel complesso il miglioramento del disavanzo si fermerebbe a circa il 5%, a causa dell’aumento dell’import Usa dal resto del mondo (per lo più da altri Paesi asiatici) .
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