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Turchia, la parabola di Erdogan dalla libera impresa all’autarchia…

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il crollo della lira

Turchia, la parabola di Erdogan dalla libera impresa all’autarchia islamica

In una lettera al New York Times pubblicata con sobrio distacco, Recep Erdogan minaccia di «cercare nuovi amici e alleati». L’intimidazione, per ora, è stata raccolta come la promessa che Allah fermerà il dollaro: con scetticismo. L’uscita della Turchia dalla Nato e un nuovo patto con Russia o Iran, cambierebbe la geografia politica della regione. Ma non ci crede nessuno, neanche russi e iraniani alle prese con problemi economici non molto diversi da quelli turchi: a Teheran anche peggiori, in prospettiva.

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Cento anni fa, il 4 luglio 1918, Mehmet VI saliva al soglio della Sublime Porta per certificare la sconfitta nella guerra mondiale e assistere allo smembramento dell’impero ottomano. Qualche anno dopo Mustafa Kemal assicurava Mehmet alla storia come l’ultimo sultano, il 36°. Dopo 623 anni d’impero, nasceva la repubblica. Un secolo più tardi, ricordando il glorioso passato e i “tradimenti” che nei momenti di crisi ogni autocrate imputa agli altri, Recep Tayyip Erdogan vuole resuscitare una versione moderna di quella Turchia ottomana: se Mehmet è stato l’ultimo sultano del XX secolo, lui da “presidente esecutivo” vuole essere il primo del XXI.

Quando Erdogan vinse nel 2002 le sue prime elezioni, i Paesi occidentali, i membri della Nato e l’Unione europea avevano guardato con simpatia al suo esperimento di rinascita turca. Il modello laico di Kemal era stantio: quando i governi civili mettevano in pericolo la stabilità e la laicità dello Stato, i generali intervenivano. Economia e società civile però stagnavano.

Sapendo di non poter controllare il “deep State” turco presidiato dai militari, Erdogan aveva incominciato a governare con cautela. Il suo primo successo fu un decollo economico inaspettato. Nell’ideologia dei Fratelli Musulmani, movimento sovranazionale al confine tra fondamentalismo e istituzionalismo, il libero mercato è un pilastro sociale. L’Akp, il partito di Erdogan, era la centrale turca della fratellanza: fu la libertà d’impresa, a partire dalle più piccole, anche nelle aree più periferiche dell’Anatolia, che avviò la grande ripresa.

Un decennio prima, la fine dell’Unione Sovietica aveva spalancato un vuoto geopolitico (ed energetico) a Est della Turchia. Le ex repubbliche asiatiche dell’Urss erano di lingua, cultura turca e fede islamica sotto la finta crosta socialista. Fu la prima occasione per Ankara di creare una sfera d’influenza fuori dai confini nazionali. Alla tentazione Erdogan non poteva resistere. Anche perché all’Asia ex sovietica si aggiungeva la cronica instabilità del Medio Oriente: il Levante e la Mesopotamia che erano stati il gioiello della corona ottomana.

Il volto democratico della Turchia cambiò e la sua islamizzazione accelerò a partire dal 2011. All’inizio le violenze in Iraq e la guerra civile siriana erano un problema di sicurezza. Presto si trasformarono in opportunità: soprattutto quando l’Isis creò il Califfato e ancora di più quando incominciò a disgregarsi, creando un vuoto geopolitico. Per Erdogan era una rivincita su “Sykes e Picot”, quando inglesi e francesi divisero il Levante ottomano in sfere d’influenza dalle quali sarebbero nati il Libano, la Siria, l’Iraq, la Giordania e Palestina-Israele: territori un tempo turchi.

Nessuno - non i regimi arabi né le milizie che li combattono – ha messo in discussione le frontiere nate dall’accordo “Sykes-Picot”: sono l’unico punto di stabilità nel caos di oggi. I soli ad averlo fatto sono stati l’Isis, i curdi ed Erdogan.

Il fallito golpe del luglio 2016 ha permesso a Erdogan di cacciare o arrestare migliaia di ufficiali, giudici e insegnanti: lo Stato profondo turco è finalmente nelle sue mani. Le elezioni presidenziali di giugno sono state l’atto finale della conquista dello Stato. «Una lezione di democrazia al mondo intero», secondo Erdogan: un altro peccato di presunzione come la ricerca di nuove alleanze e l’arruolamento di Dio nella guerra al dollaro. Quando il 90% di 55 milioni di elettori va alle urne, è un miracolo di partecipazione o un grande inganno. Fino alla metà del XIX secolo nell’impero ottomano veniva arrestato chi possedeva macchine stampatrici, nelle prigioni della Turchia neo-ottomana di Erdogan s’imprigionano giornalisti: sono 200, un primato mondiale.

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