In un sol giorno il Parlamento europeo ha battuto due colpi, entrambi significativi per la garanzia dei diritti in Europa. Con ampie maggioranze, ha dato il via libera alla procedura che può condurre a sanzionare l’Ungheria per la violazione dei valori fondamentali dell’Unione e ha approvato la proposta di direttiva sul diritto d’autore nel mercato unico digitale. Sono solo due tappe di processi lunghi, i cui esiti sono ancora incerti. Mostrano, però, che l’Europa non è solo mercato o finanza ma anche l’arena ove si combatte la battaglia sui diritti dell’uomo.
Concentriamoci sull’approvazione della direttiva sul copyright: essa non implica una rivoluzione copernicana nel rapporto tra editori e giganti della rete. Tale esito, per nulla scontato, costituisce però un’inversione di tendenza, rispetto a un processo che si credeva inarrestabile e che aveva stretto autori ed editori in una tenaglia tra gli interessi delle multinazionali del web e quelli di chi pensa di poter avere subito e senza un costo ogni contenuto presente in rete. In altri termini, il voto di Strasburgo sembra aprire nuove prospettive nei rapporti tra creatori di contenuti e grandi aggregatori e, più in generale, nel riconoscimento anche in rete di principi e diritti patrimonio della nostra civiltà europea.
In una prima prospettiva, si coglie la consapevolezza di un necessario riequilibrio economico rispetto a oggi, attraverso la «giusta e proporzionata remunerazione» per l’uso digitale delle opere dell’ingegno, anche per conferire una concreta dignità al lavoro intellettuale.
Una seconda prospettiva riguarda il rapporto fra il diritto d’autore e la rete. In altre parole, sul terreno della direttiva si gioca una battaglia tra chi vorrebbe adattare il diritto d’autore alla rete, mantenendo il principio secondo cui l’opera intellettuale è nella disponibilità del suo autore, e chi ritiene che tale diritto sia destinato a dissolversi nella rete, con il corollario per cui l’opera una volta inserita nel circuito deve godere della libera fruibilità urbi et orbi. Come se la facilità tecnica nella diffusione dovesse condizionare i principi, per cui non resterebbe altro che prendere atto dell’ineluttabilità di una libera (e gratuita) circolazione.
L’impressione, dunque, è che la conclusione positiva o negativa dell’iter della direttiva possa contribuire a spostare di qualche grado i comportamenti collettivi e così anche a modificare il mondo del futuro, in un’ottica di continuità con il passato o di netta rottura.
E questo ci porta alla terza prospettiva, che riguarda, senza voler esagerare con le parole, la vita democratica, perché incide sulla salute del principale contropotere, l’informazione professionale. Facciamo un passo indietro: la libertà di manifestazione del pensiero non è solo un diritto ma anche una condizione indispensabile affinché sia realizzabile il controllo del potere. Consentire ai giornali di essere economicamente indipendenti, in ragione del successo e quindi della qualità del loro lavoro, contribuisce a mantenerli liberi e a creare un contesto nel quale è più facile che nasca e prosperi una informazione autorevole.
Insomma, pur senza estremizzare, l’impressione è che intorno alla discussione sulla direttiva, in sede istituzionale ma anche nei dibattiti pubblici, non vi sia solo un confronto dettato da interessi economici tra due soggetti, giganti della rete ed editori, incomparabili quanto a forza. Vi è in corso un contraddittorio più generale fra due modelli di società. E, in quest’ottica, se si vuole arginare l’attuale crisi dello stato liberal-democratico, non si può essere passivi davanti alla crisi di uno degli elementi essenziali che ha sostenuto questo sistema: una stampa forte e libera.
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