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Orbán è un «dittatore»? Forse, ma la Germania non…

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Servizio |LA VISEGRAD CONNECTION

Orbán è un «dittatore»? Forse, ma la Germania non può fare a meno di lui

Da quando è salito al potere, nel 2010, il primo ministro ungherese Viktor Orbán ha spinto Budapest su una china che combacia poco con le ambizioni dell’integrazione europea (e lo stato di diritto). Il governo trainato dal suo partito nazionalconservatore, Fidesz, ha approvato solo il 12 dicembre un doppio pacchetto legislativo che ha scatenato proteste di piazza e attirato i timori dell’Eurocamera. Da un lato arriva una riforma del lavoro, definita «neoschiavistica» perché aumenta da 250 a 400 le ore di straordinari che possono essere richieste dalle aziende ai dipendenti. Dall’altro, una riforma del sistema giudiziario che incrementa il controllo del governo sui tribunali. Un’ingerenza che fa il paio con la cosiddetta purga dei magistrati voluta dal partito di governo polacco, Diritto e giustizia, poi costretto alla retromarcia dalla Corte Ue.

Orbán, ribattezzato scherzosamente «il dittatore» da Jean-Claude Juncker, preoccupa a cadenza alterna le istituzioni europee per la sua gestione del paese, capacve di far scattare l’articolo 7 del trattato unico sulla Ue (una procedura di infrazione che scatta quando si violano i principi fondanti della Ue). Ci sarebbero tutti i presupposti per pensare a un logoramento dei rapporti con la famiglia dei Popolari europei, alla sua leader di fatto Angela Merkel e alla Germania. Non è così. Fidesz siede fra le file del Ppe e non ha nessuna intenzione di rompere con la propria coalizione politica. La Germania è finita in rotta di collisione con l’Ungheria nel vivo della crisi migratoria, ma le - caute - critiche del Bundestag non sono mai sfociate in uno strappo definitivo. Le ragioni di tanta esitazione sono figlie, più che altro, di realismo politico. Berlino ha bisogno del blocco di Visegrad e il blocco di Visegrad ha bisogno di Berlino, in un rapporto di interdipendenza economica che fa scivolare in secondo piano qualsiasi divergenza diplomatica. Un «matrimonio di convenienza» che potrebbe diventare anche più cruciale nel dopo Brexit, quando l’economia tedesca avrà bisogno di un mercato di sbocco solido per conservare le sue dimensioni.

Dall’interscambio alla manifattura, la «Visegrad connection»
I paesi di Visegrad sono vincolati alla Germania almeno quanto la Germania è vincolata a loro, sia che si parli dell’interscambio sia della questione, più articolata, della penetrazione dell’industria tedesca nell’Europa dell’Est. Beata Farkas, professoressa di finanza e relazioni economiche internazionali all’Università di Seghedino (Ungheria), ha una definizione calzante per spiegare le dinamica. «Il miglior termine per descrivere le relazioni economiche fra Germania e V4 - dice - è “interdipenza asimmetrica”. La Germania è il partner forte, ma il rapporto non è così unilaterale». Sul fronte dell’interscambio, il blocco dei «V4» rappresenta un mercato di sbocco decisivo dell’export tedesco: 139,2 miliardi di euro nel 2017, più della Cina o degli Stati Uniti, contro volumi di import quasi analoghi (138 miliardi di euro).

Un turnover imponente per la contabilità nazionale di entrambi i blocchi, ma la vendita finale di beni è secondaria rispetto al nesso più profondo: il ruolo dei V4 come cuore della manifattura tedesca, una parte integrante della produzione e nel commercio di beni intermedi. Le aziende della manifattura tedesche, soprattutto nell’automotive, hanno investito da anni in maniera massiccia su stabilimenti e attività nel perimetro dei paesi di Visegrad, attratti da fattori come il basso costo del lavoro e infrastrutture relativamente efficienti. Tra 2012 e 2015, secondo dati della Deutsche Bundesbank, gli investimenti diretti in uscita verso i paesi del blocco Visegrad sono cresciuti da 69,4 miliardi di euro a 76,8 miliardi di euro. La sola Volkswagen ha nove stabilimenti in Polonia, quattro in Repubblica Ceca, due in Slovacchia e uno in Ungheria. Siemens, la conglomerata delle tecnologie, dà lavoro a 3.500 persone in Ungheria e ha annunciato un piano di investimenti da 7 miliardi di euro in sette anni in Repubblica Ceca. Orbán ha buoni rapporti con i vertici delle grandi aziende tedesche.

I riflessi sulla politica
Il tutto serve a spiegare perché le tensioni diplomatiche fra la Germania e il blocco dell’Est non siano mai esplose in via definitiva, né si apprestino a farlo in tempi prevedibili. «Merkel deve considerare gli interessi economici del suo paese. Né mi aspetto che i Popolari siano particolarmente determinati contro Fidesz» dice Farkas. I risultati si vedono, anche in negativo. Berlino non è mai riuscita a imporre ai «V4» alcun tipo di collaborazione sull’accoglienza dei richiedenti asilo, né a farli smuovere su un meccanismo di quote invocato per smaltire la pressione su altri paesi europei. Quanto al Partito popolare europeo, i malumori dell’ala liberal verso figure come Orbán e Morawiecki non sono mai sfociati nell’unico provvedimento che accrediterebbe un distanziamento reale: l’espulsione di Fidesz, ora ufficialmente confluita nell’orbita della «internazionale populista» capitanata in Europa dall’ex stratega di Trump Steve Bannon. Manfred Weber, capogruppo dei Popolari all’Europarlamento, si è schierato a favore dell’attivazione dell’articolo 7 contro Orbán , ma la sua scelta non ha creato dissapori particolari con Budapest. La settimana dopo Weber e Orbán sedevano insieme a Salisburgo, alla cena informale dei leader del Ppe. A tavola c’era anche Angela Merkel.

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