Dopo cinque ore di riunione Theresa May ha concluso la riunione del suo governo sui contenuti dell’accordo per Brexit. Anche se ha superato questo ostacolo - tutt’altro che scontato - la premier dovrà trovare in parlamento 320 voti per far passare l’accordo sull’addio del Regno Unito all’Unione europea fissato per legge il 29 marzo 2019. Se il governo dice sì all’accordo, si sblocca il summit Ue di fine mese. Il parlamento britannico vota invece il 6 dicembre ma cresce lo scontento dei falchi brexiteers contro la premier.
I ministri del governo May sono uniti?
No. Cinque ministri senior del governo voteranno l’accordo: sono Dominic Raab, Jeremy Hunt, Sajid Javid, Michael Gove e
Geoffrey Cox, annuncia il Sun. Said e Gove sono dei puri brexiteer e ciò dovrebbe far gioire la primo ministro ma due donne dell’esecutivo - Esther McVey, ministro lavoro e pensioni, e Penny
Mordaunt, ministro sviluppo internazionale - hanno detto più volte di essere contrarie al piano e nelle ultime ore hanno
confermato questo scetticismo. L’ufficio della May registra che nella notte non vi sono state dimisisoni ma nessuno esclude
che Mordaunt e McVey lasceranno oggi.
La premier ha i numeri in parlamento?
Il governo di Theresa May ha bisogno di 320 voti per far passare l’accordo ed è nato grazie all’appoggio degli unionisti nordirlandesi.
I 10 deputati del DUP (Democratic Unionist Party) sono tra i meno convinti del testo perché la soluzione adottata per il confine
Repubblica d’Irlanda-Irlanda del Nord li riguarda da vicino e sancirebbe una maggiore vicinanza del territorio irlandese all’Unione
europea, quindi un distacco dal resto del Regno Unito che tradirrebbe la stessa ragion d’essere del partito guidato da Arlene
Foster che oggi dice «non possiamo separarci dal resto del Regno Unito. Non è ammissibile che vi siano nuove barriere commerciali
fra Regno Unito e Irlanda del Nord». Sammy Wilson, portavoce del DUP annuncia: «Saremo chiari: non voteremo per quella che
consideriamo una umiliazione».
Quanto è diviso il partito conservatore?
I 10 voti del Dup sono dunque molto dubbi. Più importanti e pericolosi sono i numeri del «no» dentro il partito conservatore:
circa 50 deputati Tory pro-Brexit lavorano da mesi per far dimettere Theresa May di cui avversano la leadership e nondimeno
un piano d’uscita dall’Ue che giudicano troppo morbido. «Si è arresa alla Ue» è il loro grido di battaglia e questo drappello
è diffilmente recuperabile alla ragione. C’è poi un gruppetto di conservatori europeisti a cui non piace l’accordo per l’opposto
motivo, ufficilamente vorrebbe un più stretto legame con l’Ue per non danneggiare l’economia ma come tutti i Remainers vede possibile un secondo referendum per fermare lo storico addio al blocco dei 27: volto di questo gruppetto è Jo Johnson,
ministro pro-Ue fratello del brexiteer Boris, che si è dimesso in polemica con questo accordo. Boris e il leader dei brexiteers
jacob Rees-Mogg dicono che così il Regno Unito si svende all’Ue e diventa uno stato vassallo.
Qual è la posizione ufficiale dei Tory?Tre donne contro
È difficile dire se ve ne sia una ma bisogna registrare quanto ha detto oggi Andrea Leadsom, leader della Camera dei Comuni
e fervente brexiteer nonché ex rivale di May come ex papabile alla guida del partito e del governo. Con Esther McVey e Penny
Mordaunt è la terza donna contro l’accordo raggiunto dalla premier. Leadsom ha detto di aver avuto un proficuo colloquio
con la primo ministro e si è detta ottimista sul raggiungimento di un buon accordo. Ma ha anche detto che non può rispondere
alla domanda se voterà o meno al testo perché «prima deve vedere i dettagli». I commentatori britannici non se la sentono
di arruolarla tra coloro che diranno sì.
I laburisti daranno una mano alla May?
Paradossalmente la premier conservatrice punta su quei deputati dell’opposizione che potrebbero votare l’accordo per scongiurare
lo scenario peggiore, un «no deal» dagli effetti disastrosi e non del tutto controllabili. Ma il leader Jeremy Corbyn e il
suo numero due John McDonnell puntano a far cadere questo governo per nuove elezioni politiche.
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