Violenza inaudita, sospetti di manipolazione straniera sui social network, protesta spontanea e con comprensibili rivendicazioni economiche e sociali di partenza che via via si organizza lungo direttrici inquietanti, fino a esplodere in maniera organizzata e distruttiva. Non tutti i conti tornano nell'interpretazione del fenomeno dei «gilet gialli», movimento polimorfo in grado di federare la Francia che si sveglia presto al mattino per andare al lavoro a decine di chilometri da casa, l'estremismo di destra e di sinistra e una guerriglia urbana professionale.
Le ragioni apparentemente oggettive per le quali i francesi sono scesi in piazza erano tutte ben presenti nella campagna elettorale che nel 2017 ha portato Emmanuel Macron a vincere le presidenziali. Ritirata dello Stato e delle sue istituzioni dalla provincia (la chiusura degli uffici postali nella France périphérique e l'impossibilità per molti paesi di trovare un medico condotto sono piccoli grandi traumi per le comunità locali), la contrapposizione tra centro e periferia, quest'ultima intesa sia come ruralità sia come realtà periurbana, una periferia di agglomerati senza particolare identità territoriale che sfumano verso la campagna.
Tutto ciò, e il conseguente aumento delle diseguaglianze di reddito e di una disoccupazione in forte crescita nella periferia e in arretramento nei centri grandi e medi, era ben presente due anni fa e domina il dibattito politico nazionale da almeno un decennio. Una vecchia e profonda ferita della società francese che la vittoria di Macron aveva momentaneamente (e artificiosamente) richiuso. Il geografo Christophe Guilluy già in quell'occasione aveva rappresentato meglio di chiunque altro la linea di divisione della Francia, riconducibile a un processo di deindustrializzazione che risale agli anni '80: «La geografia resta il denominatore comune di questa protesta, come per Brexit, Trump e di tutti gli altri movimenti populisti che si stanno rafforzando in Europa», ha dichiarato in un'intervista al Financial Times.
La Francia è protestataria e conservatrice al tempo stesso. E uno dei padri del moderno populismo può essere considerato il francese Pierre Poujade. Non un vero politico, ma un cartolaio di provincia con passate frequentazioni nel Partito popolare di Jacques Doriot, formazione protofascista, e nel movimento giovanile del maresciallo Pétain. Poujade all'inizio degli anni 50 seppe trasformare la protesta locale contro gli ispettori del fisco di Parigi, arrivati ad accertare le dichiarazioni dei redditi di artigiani e commercianti del suo paese, in un movimento nazionale capace di far eleggere 52 parlamentari all'Assemblea Nazionale, e tra questi un giovane “promettente”, Jean-Marie Le Pen.
Allora, però, c'era un leader, un volto riconoscibile cui attribuire una responsabilità precisa. Con i «gilet gialli», versione sofisticata di quel proto-populismo degli anni 50, oscilliamo tra figure di onesti lavoratori di provincia e rimestatori incappucciati, profili social che puzzano fortemente di fake; rivendicazioni che nascono da una tassa probabilmente ingiusta – quella sul carburante – per sfociare nello slogan generalista del «meno tasse e più spesa pubblica» al quale si è aggiunta l'avversione al Global Compact dell'Onu, la dichiarazione internazionale sulle migrazioni.
Oggi sappiamo che dietro il giallo si eleva una cortina fumogena che avvolge e soffoca le ideologie tradizionali, e non solo i cortei di protesta. Il tentativo è di riuscire là dove Marine Le Pen e altre forze estreme avevano fallito grazie a un Macron allora apparentemente in sintonia con lo spirito del tempo (un misto di anti-politica e competenza tecnocratica) e a un meccanismo di pesi e contrappesi (il doppio turno delle elezioni presidenziali e politiche) che avevano mascherato l'inquietudine di un grande territorio. L'estrema destra del Front National, ora ribattezzato Rassemblement National, e l'estrema sinistra de La France Insoumise di Jean-Luc Mélenchon, avevano ottenuto assieme, al primo turno delle presidenziali, oltre il 40% dei voti contro il 24% di Macron.
Isolato e silenzioso all'Eliseo, il presidente francese, reduce da un'interminabile serie di gaffes, da un progressivo distacco dalla realtà del Paese dopo averne disintegrato il paesaggio politico, medita le sue prossime mosse nella consapevolezza che mai come in queste settimane convulse e avvelenate le istituzioni democratiche della V Repubblica sono state così fragili.
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