Un senso di cambiamento epocale aleggia sul Giappone, all’inizio di un anno che vedrà, a inizio maggio, l’avvio formale di una nuova era secondo il calendario nazionale, che cambia a ogni avvicendamento di imperatore. Non è solo la prossima fine dell’era “Heisei” iniziata nel 1989 a generare un confuso sentimento tra il nostalgico e l’irrequieto: sullo sfondo si profila il ritorno di un anno di Olimpiadi a Tokyo, a richiamo di quelle fortemente simboliche del 1964 che sancirono il ritorno del Paese come primattore sulla scena internazionale.
Se allora c’era molto ottimismo per un boom economico destinato ad accelerare, oggi le esigenze economiche pongono il Paese di fronte a scelte senza precedenti e piene di incognite.
Un aspro dibattito sull’immigrazione, tra Parlamento e opinione pubblica, ha caratterizzato la fine del 2018, finendo per investire i temi cruciali dell’identità nazionale e del futuro di una società che ancora si percepisce come omogenea («tanitsu minzoku»), con residenti stranieri ancora limitati a circa il 2% della popolazione (2,56 milioni, di cui 1,3 milioni di lavoratori). Eppure chiunque capiti a Tokyo può vedere segni evidenti di una rapida evoluzione. Quasi un terzo degli addetti agli ubiqui “kombini” (i negozietti aperti 24 ore su 24) non sono giapponesi: è successo nel giro di pochissimi anni, tra le maglie di normative molto restrittive che però consentono a studenti stranieri di lavorare per 28 ore settimanali.
Imperativi economici
La questione dell’immigrazione è stata posta all’ordine del giorno dallo stesso governo conservatore di Shinzo Abe, che ha
forzato il passaggio parlamentare di una nuova legislazione che per la prima volta consentirà l’ingresso nel Paese a manodopera
straniera generica. Non certo per buon cuore, ma su accorate pressioni di un mondo imprenditoriale alle prese con forti carenze
di personale . Lo stesso esecutivo stima un fabbisogno non coperto di almeno 600mila lavoratori per quest’anno, proiettandolo
in aumento a oltre 1,4 milioni entro 5 anni. Nella società più vecchia del mondo – e a più rapido invecchiamento e bassissima
natalità - la popolazione diminuisce e ancora di più si contrae la forza-lavoro con il pensionamento di massa dei baby-boomers.
Scontato che ai giovani non piacciano i lavori delle “3 K” («kitanai», «kitsui», «kiken»: sporchi, duri e pericolosi), le
potenzialità dell’economia sono frenate non solo da una mancanza di autisti, muratori, agricoltori, ma anche di addetti a
molti servizi: dall’assistenza domiciliare e infermieristica al settore alberghiero e della ristorazione.
Due nuove categorie di visti
Così l’esecutivo Abe ha deciso di introdurre due nuove categorie di visti: uno per lavoratori a bassa qualificazione in 14
settori, limitato a un massimo di 5 anni senza possibilità di portare le famiglie; uno per chi ha più specifici requisiti,
che aprirà un percorso eventuale verso la residenza permanente. Per quanto lo stesso Abe abbia sottolineato che non si tratta
di una politica sull’immigrazione – ma solo di supporto alle esigenze del mondo produttivo – le polemiche sono state accese.
Con il paradosso che anche le opposizioni – per lo più orientate meno “a destra” – sono sembrate perdere la bussola nel contestare
la nuova legge, sia pure allegando buoni motivi (come la necessità di predisporre le condizioni per un inserimento sociale
di chi arriverà).
Eppure i numeri resteranno ben sotto controllo: il governo ha stimato in 345mila in 5 anni gli arrivi di manodopera non particolarmente qualificata, precisando che non si tratta di un tetto e che in parte i nuovi visti andranno a chi è già in Giappone nel quadro di programmi precedenti (come quello per i 274mila “apprendisti stranieri”, ampiamente sospettato di aver aperto la strada a abusi e sfruttamento di giovani asiatici).
«Se è lo stesso governo a ipotizzare che la popolazione in età da lavoro possa calare da 75,2 a 67,7 milioni già nel 2030, l’economia ristagnerà: il Paese dovrebbe sviluppare una comprensiva politica sull’immigrazione come parte integrante della strategia di sviluppo a medio termine», osserva John West, direttore dell’Asian Century Institute. Già da oltre un decennio un ex dirigente del Tokyo Immigration Bureau, Hidenori Sakanaka, sostiene che entro il 2050 il Giappone dovrebbe avere almeno 10 milioni di immigrati: se non altro, per una questione di sopravvivenza economica.
Problemi comuni: il caso tedesco
L’ultimo atto del 2018 dell’esecutivo Abe è stata l’adozione di 126 misure amministrative riguardanti i lavoratori stranieri:
dalla creazione di un centinaio di centri di informazione e assistenza alla previsione di esami di lingua giapponese in alcuni
Paesi asiatici per i candidati, fino a disposizioni per la lotta alle mediazioni illegali e allo sfruttamento. Molti osservatori,
giapponesi e non, restano del parere che lo scopo del governo sia soprattutto quello di affrontare il problema immediato delle
carenze di manodopera che frenano l’economia, senza prevedere un programma organico di integrazione sociale.
I problemi sono comuni ad altri Paesi avanzati: se è inimmaginabile oggi una Italia senza badanti, muratori o vendemmiatori stranieri, la Germania a dicembre, su pressione del mondo produttivo, ha allentato le regole sull’immigrazione per venire incontro alle esigenze della sua economia: la nuova «Fachkräftezuwanderungsgesetz» renderà più facile alle imprese reclutare lavoratori extra-Ue qualificati, visto che nemmeno gli europei non tedeschi sembrano in grado di coprire gli 1,2 milioni di posti vacanti di infermiere, carpentiere e così via. Ma se Berlino appare all’avanguardia negli sforzi di integrazione, secondo il sociologo Akihiro Koido il Giappone rimane restìo a staccarsi da un approccio simile a quello tedesco degli anni 50 del ’900, quando i «gastarbeiter» erano considerati, appunto, ospiti temporanei. Non immigrati e futuri cittadini.
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