NEW YORK - L’ombra della Cina si allunga sui bilanci della Corporate America. Nei prossimi giorni e settimane l’ottimismo di recente affiorato sui negoziati commerciali per superare la crisi tra Washington e Pechino si scontrerà con l’impatto che la frenata dell’economia cinese e il peggioramento delle relazioni tre le due potenze dimostrerà di avere sulle multinazionali americane, dalla tecnologia al caffè, dall’abbigliamento al lusso e alla finanza. Da Apple a Starbucks, da Nike alle banche. Non solo: la performance sul mercato asiatico sarà una componente essenziale della frenata attesa nell’insieme delle trimestrali, quelle di adesso e le prossime.
Il caso Cina per le imprese Usa è esploso con forza con Apple, quando il chief executive Tim Cook ha inviato una lettera-shock agli investitori per allertarli di una imminente e rara delusione nei conti, in uscita il 29 gennaio. Cook ha menzionato ben 11 volte la Cina nella missiva. Ma la sfida si spinge ben oltre il re degli iPhone. I segnali di difficoltà erano già cominciati ad affiorare nei mesi scorsi, quando una società quale FedEx aveva ammonito sulle ripercussioni per il business della frenata dell’economia globale e in particolare del problema-Cina, per il suo indebolimento e le tensioni nell'interscambio. A dare prova che Pechino potrebbe influenzare anche i conti della finanza è inoltre stata ieri la più internazionale forse delle banche statunitensi, Citigroup: il suo bilancio del quarto trimestre, uno dei primi e essere annunciato, ha visto una particolare frenata proprio in Asia.
Adesso alla prova dei conti arriveranno decine di marchi: ben 62 aziende nell'indice Standard & Poor'500, stando a stime di FactSet, riportano vendite di rilievo in Cina e dintorni. Le prime venti, per dare un’idea della posta in gioco, hanno un’esposizione misurata da vendite annuali (basate sui dati completi del 2017) da circa 160 miliardi di dollari. Nell’ultimo trimestre uscito, il terzo del 2018, 25 aziende Usa hanno comunicato dati specifici relativi alla piazza cinese, con otto per le quali il fatturato nel Paese rappresenta almeno il 20% del totale. Nel caso di Apple la percentuale è esattamente di un quinto; per Nike è di un sesto.
L'impatto non è univoco per tutti e non equivale necessariamente al livello di esposizione. Accanto a Apple, Starbucks ha indicato di aspettarsi che nell’anno ora in corso le sue vendite cinesi (ha 3.600 locali nel Paese) aumentino tra l'1% e il 3%, ai minimi degli ultimi anni. Nike, invece, reduce da un balzo del 31% nelle entrate negli ultimi tre mesi riportati, continua a scommettere, stando a dichiarazioni dei suoi vertici delle ultime settimane, su forti successi del suo marchio. Alcune società che vendono soprattutto a imprese cinesi manifatturiere e esportatrici, ad esempio protagonisti dei semiconduttori quali Texas Instruments, hanno inoltre un'enorme vulnerabilità potenziale - quasi metà delle vendite per TI nel terzo trimestre - ma visti appunto i loro clienti potrebbero soffrire meno di società che si rivolgono ai consumatori. È tuttavia certo che anche gruppi teoricamente non esposti direttamente alla Cina, in un segmento quale il lusso, potranno risentire di diminuite vendite, attraverso il probabile calo di turisti di Pechino che fanno acquisti in Occidente.
I nuovi conti trimestrali dell'Azienda America adesso in arrivo, insomma, sono attesi a dare una risposta sulla salute non soltanto delle aziende americane, ma dell'intera economia globale.
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