Tenuto conto dei tempi stretti, si rafforzano le possibilità che il Regno Unito decida a un certo punto di chiedere un rinvio della data di uscita dall’Unione, attualmente prevista per il 29 marzo. L’ipotesi è prevista dai Trattati, ma provocherebbe non pochi grattacapi politici e giuridici, in particolare a causa delle prossime elezioni europee di fine maggio.
Parlando due giorni fa a Stoke-on-Trent, la premier inglese Theresa May ha escluso ancora una volta un rinvio dell’uscita del suo Paese, ma ha sottolineato come il suo obiettivo sia una Brexit «morbida e ordinata» che protegga «posti di lavoro e sicurezza». Non sarebbe popolare per il partito conservatore, che ha fatto campagna a favore di Brexit, essere costretto a chiedere di rimanere nell’Unione, fosse solo per qualche settimana o mese.
D’altro canto, il rinvio della data di uscita sembra a molti diplomatici inevitabile, tanto più ora dopo che ieri sera l'accordo di divorzio è stato bocciato da Westminster. Una hard Brexit, ossia una uscita senza intesa, è considerata troppo devastante sui due lati della Manica per non cercare di evitarla a tutti i costi, come ha ammesso la stessa signora May a Stoke-on-Trent.
L’articolo 50 dei Trattati prevede che il Paese uscente possa accordarsi con i suoi partner per allungare il periodo di due anni previsto tra la data di notifica della volontà di lasciare l’Unione e la data dell’effettiva uscita del paese. Nel caso Londra chieda un rinvio di Brexit, fosse solo per approvare le numerose leggi ancora in discussione a Westminster, non sembra che vi saranno obiezioni da parte dei Ventisette. L’obiettivo di tutti è di evitare comunque una uscita disordinata del Regno Unito, con o senza un accordo di divorzio.
Il problema è la durata del rinvio. La scelta di far scadere il periodo di due anni nel marzo del 2019 fu dettata dall’obiettivo di evitare che il Regno Unito fosse ancora membro dell’Unione al momento delle elezioni europee, previste il 23-26 maggio. Questa settimana il ministro degli Esteri spagnolo Josep Borrell ha detto che il suo governo si opporrebbe a un rinvio che scavalcasse la data del voto comunitario. Con ragione: in questa fattispecie si porrebbe la questione della rappresentanza del Regno Unito nel Parlamento europeo. Da giorni ormai diplomatici e giuristi stanno riflettendo alle varie soluzioni. «Tutte richiedono una modifica dei Trattati – ammette un negoziatore –. I testi sono chiari: un Paese membro deve essere rappresentato a Strasburgo. Mi sembra che la soluzione più semplice sarà organizzare le elezioni anche nel Regno Unito. Soluzioni alternative potrebbero mettere a rischio la legittimità stessa della composizione dell’assemblea, con enormi pericoli politici e giuridici».
Il timore qui a Bruxelles è che il voto europeo possa sancire il successo dello UK Independence Party, sulla scia di un discredito dei conservatori e dei laburisti. Parlando ieri a Strasburgo, il ministro degli Esteri tedesco Heiko Maas era stato chiaro: «Se stasera (ieri sera, ndr) andasse male, ci potrebbero essere ancora colloqui (…) Non credo tuttavia che si possano mettere soluzioni aggiuntive sul tavolo che nulla hanno a che fare con quello che è stato negoziato». Sull’ipotesi di modifiche, si è detto «scettico».
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