In un mondo ancora dipendente dagli idrocarburi, immaginare di fare a meno del Paese con le più grandi riserve petrolifere potrebbe scatenare, sui mercati del greggio, ondate di panico. Ma se il Paese con le più grandi riserve del pianeta (incluse, tuttavia, le meno pregiate sabbie bituminose) è un malato cronico, incapace di ammodernare la sua industria petrolifera, alle prese con un duraturo declino produttivo, la percezione del pericolo cambia. E di molto.
Gli ultimi dati disponibili,diffusi tre settimane fa, segnalavano come le esportazioni petrolifere del Venezuela fossero crollate alla fine del 2018 ai minimi da quasi 30 anni. Il declino produttivo negli ultimi 10 anni suona drammatico per un Paese che non è mai riuscito ad affrancarsi dalla petro-dipendenza. Nel 2012 Caracas produceva 2,9 milioni di barili al giorno di petrolio (mbg) e ne esportava 2,1. Sei anni dopo, nel 2018, ha estratto meno della metà del greggio, 1,3 mbg, esportandone 1,2 milioni.
Si tratta di un trend destinato a trascinarsi anche quest’anno, indipendentemente dall’ultima crisi politica. Gli analisti avevano già previsto per quest’anno un’ulteriore calo produttivo pari a 300-500mila barili al giorno. Se gli Stati Uniti decidessero davvero di varare un embargo petrolifero contro il regime del controverso presidente Nicolas Maduro, l’emorragia potrebbe essere fatale per la sopravvivenza della fatiscente industria petrolifera del Venezuela. Quello che un tempo era il quarto produttore dell’Opec potrebbe ritrovarsi a produrre poco più di mezzo milione di barili.
Seguendo un copione già visto altre volte nei confronti di Paesi considerati ostili, il presidente americano Donald Trump ha minacciato sanzioni. Ma non dovrebbe ignorare che varare un embargo petrolifero contro il Venezuela (bisogna capire se solo nei confronti delle compagnie Usa oppure valido per tutti) danneggerebbe non solo il regime di Maduro(succeduto a Hugo Chavez nel 2013), ma anche e soprattutto la popolazione, già allo stremo e alle prese con un’inflazione ormai fuori controllo, schizzata sopra il milione per cento (approssimativamente).
Il problema di questa drammatica crisi è che non avrà un impatto drammatico sui mercati petroliferi(altra cosa accadrebbe se al posto di Caracas ci fosse Riad). Complice una serie di contingenze, il mondo può fare a meno del greggio venezuelano: la produzione americana di shale oil si trova infatti da mesi su livelli record (in febbraio dovrebbe stabilire un nuovo primato a 8,2 mbg). Un aumento produttivo che si è riflesso positivamente sulle scorte e di greggio e distillati, ai massimi da diversi anni. Senza contare che il probabile rallentamento dell’economia mondiale eroderebbe la domanda mondiale di greggio.
Chi potrebbe essere avvantaggiato da questa situazione è l’Iran. Per evitare un drastico aumento dei prezzi del greggio, Trump aveva deliberato una serie di esenzioni – temporanee - per i maggiori importatori di greggio iraniano (tra cui Cina,India ma anche l’Italia). Tali esenzioni dovevano durare sei mesi. Ma con la crisi in Venezuela potrebbero essere estese.
Anche se Maduro si dimettesse subito, e in modo pacifico (scenario improbabile), la ristrutturazione della compagnia petrolifera di Stato (Pdvsa), sommersa dai debiti, richiederà tempo. L’entourage del leader dell’opposizione, auto-proclamatosi presidente, Juan Guaidò, sta studiando le soluzioni del dopo-Maduro. Tra cui una parziale privatizzazione della Pvdsa in modo da far rientrare le major petrolifere che avevano abbandonato il Paese sotto Chavez. E l’istituzione di una nuova Agenzia nazionale degli Idrocarburi che gestirà le gare per l’assegnazione delle licenze esplorative e produttive. Maduro permettendo. La realtà appare amara. Se il mondo potrebbe fare a meno (senza troppi danni)del greggio del Venezuela, i venezuelani proprio no.
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