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Brexit, cosa può succedere dopo il voto sul rinvio

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Servizio |londra nel caos

Brexit, cosa può succedere dopo il voto sul rinvio

Dopo due batoste nell’arco di 48 ore, la premier Theresa May incassa finalmente il via libera della Camera dei Comuni sulla sua terza e ultima mozione: quella che prevede il rinvio del divorzio oltre la data, ormai imminente, del 29 marzo 2019. Il testo, approvato con 412 voti favorevoli e 210 contrari, incarica il governo di richiedere alla Ue un’estensione dell’articolo 50 (il meccanismo, istituito dal Trattato sulla Unione europea, che disciplina l’uscita di uno stato membro dalla Ue).

Ora il futuro della Brexit è appeso, ancora una volta, all’accordo di divorzio tra Londra e la Uegià respinto due volte dai parlamentari britannici. La proposta di Theresa May dovrà essere rivotata il 2o marzo, aprendo due scenari diversi: se i parlamentari approvano la mozione, il governo chiederà un’estensione breve fino al 30 giugno; se i parlamentari respingono nuovamente la mozione, il governo chiederà un’estensione «più sostanziale», ovvero più lunga. Sempre che l’Europa dia il suo assenso, dopo un tira e molla che sta irritando i vertici comunitari e facendo sbilanciare alcuni paesi verso l’ipotesi di un no-deal.

Le Ue: rinvio non è automatico, serve unanimità
In entrambi i casi, infatti, il «delay» richiesto da Londra deve passare per un'approvazione all'unanimità dei leader dei 27 paesi Ue in occasione di un summit del 21 marzo. Donald Tusk, il presidente del Consiglio europeo, si sta già spendendo a favore di un atteggiamento accomodante, anche se l’orientamento dei Ventisette sarà determinato da elementi di valutazione concreti. Come ha sottolineato un portavoce della Commissione, il rinvio «non è automatico» e deve essere soppesato da Bruxelles a seconda di due fattori cruciali: la lunghezza del rinvio proposta e le «motivazioni» addotte da Londra quando chiederà formalmente la proroga dell’articolo 50. Dal punto di vista delle tempistiche, l’Europa sembra incline ad accettare senza particolari riserve un rinvio breve, o comunque tale da evitare una sovrapposizione con la data delle europee. Potrebbe creare qualche problema in più un rinvio di lunga durata, a meno che non si arrivi a un accordo anche in questo senso. Più delicata la questione delle «giustificazioni»: la Ue si è detta pronta a respingere l’estensione dell’articolo 50 se Londra non si presenterà a Bruxelles con «chiare indicazioni» su quello che intende fare nei mesi di dilazione.

Il no al secondo referendum e il rischio della «presa di potere» del Parlamento
Prima del voto sulla mozione, la Camera dei Comuni si era espressa su un pacchetto di emendamenti approvato dallo speaker John Bercow. Ma «l’assalto» al testo si è risolto con un nulla di fatto: su quattro modifiche presentate, tre sono state bocciate e una ritirata in extremis . Il primo testo a essere respinto è stato il cosiddetto «Emendamento H», avanzato dall’ex deputata conservatrice Sarah Wollaston e consistente nella richiesta di un rinvio abbastanza lungo da permettere un nuovo referendum sul divorzio tra Londra e la Ue. L’ipotesi è stata affossata anche dall’astensione di massa dei laburisti, con l’eccezione di 25 dissidenti rispetto alla linea del partito (favorevole al principio, ma contrario sulla «tempistica»).

Niente da fare anche per l’emendamento I, formulato dalla deputata Hilary Benn, che proponeva maggiori poteri per il Parlamento nella gestione della Brexit (respinto sul filo del rasoio con 314 no e 312 sì), né per «l’emendamento all’emendamento I (una modifica tecnica sullo stesso testo di Benn, ndr)» che avrebbe consentito al Parlamento di esprimere «voti indicativi» (314 no e 311 sì). I due veti del parlamento hanno consentito al governo di May di mantenere il controllo sul processo della Brexit, sia pure con uno scarto tanto ridotto da rivelare la fragilità di un esecutivo già lacerato da dimissioni e attacchi diretti alla premier May.

La Camera ha poi bocciato con 318 voti contrari contro 302 favorevoli l’emendamento E, sponsorizzato dal leader dei laburisti Jeremy Corbyn, che proponeva un rinvio della Brexit per «trovare un’altra maggioranza in parlamento per un differente approccio alla Brexit». Un ultimo emendamento, intenzionato a vietare del tutto il terzo voto sull’accordo May-Europa, è stato ritirato all’ultimo dal suo autore, il deputato Chris Bryant.

IL RITRATTO / Theresa May, la premier che tiene in ostaggio l’Europa

May respira, ma il governo resta spaccato (e l’opposizione pure)
Theresa May può tirare il fiato, almeno rispetto alla due giorni da incubo che ha segnato uno dei momenti più bui della sua premiership. Nell’arco di due giorni May è riuscita prima a subire una nuova sconfitta al suo accordo (rendendo inutili le trattative dell’ultimo minuto con i presidente della Commissione Jean-Claude Juncker), per poi vedersi bocciare persino un voto quasi scontato come quello sul no-deal. Nella serata del 13 marzo, infatti, quattro esponenti del suo governo (Amber Rudd, David Gauke, Greg Clark e David Mundell)le hanno remato contro, votando per l’eslusione del «no deal» in ogni caso: May aveva sostenuto una dichiarazione che lasciava aperta questa eventualità, con l’obiettivo di forzare i parlamentari a votare per la sua mozione in alternativa all’Hard Brexit. I conservatori sono lacerati da una crisi che sta indebolendo la maggioranza di Westminister, ma l’opposizione laburista non gode di salute migliore. Il partito capitanato da Jeremy Corbyn è riuscito a dividersi nelle varie votazioni di oggi, con una fronda significativa soprattutto nel caso dell’emendamento per un secondo referendum: in 25 hanno dato il loro ok al «voto del popolo», ritenendolo prioritario rispetto alla linea di astensione dettata dal partito.

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