Xi Jinping arriva in Italia. E la visita di un ospite non qualsiasi – il livello è lo stesso del presidente degli Stati Uniti e del russo – è accompagnata da un dibattito surreale: Cina si, Cina no. Se vogliamo fare affari con quell'universo dobbiamo saltare sul treno della Via della Seta, è la versione ufficiale. Se non lo facciamo perdiamo la grande occasione.
E' una sciocchezza. Come se fosse possibile non fare affari con la seconda potenza economica al mondo: quella in maggiore
espansione, con più progetti, più idee e più consumatori. Li fanno eccome i francesi, i tedeschi, gli inglesi, i canadesi,
figuriamoci i giapponesi. Anche gli americani, nonostante il contenzioso trumpiano sui dazi. Questi sei paesi, nostri stretti
alleati e membri del G7 – il settimo siamo noi – non hanno intenzione di entrare nel grande affare della Via della Seta. Eppure
in termini assoluti o relativi, esportano, importano, investono o ricevono investimenti con la Cina più dell'Italia.
Se ci chiedono di non entrare nel business della Via della Seta, non è per invidia o per boicottare i nostri affari. Diversamente
da come la pensa il vice-premier Luigi Di Maio, dimostrano che per avere sani e importanti rapporti economici con la Cina,
non serve entrare nello schema ideato dal suo regime. Conta di più avere un'economia dinamica, capace di attrarre investimenti.
Se ci chiedono di non finire nelle mani di Xi è soprattutto per una questione di sicurezza: non tanto la sicurezza di oggi
quanto quella del nostro futuro di paesi occidentali e democratici. Le nostre alleanze non sono in discussione, dice il premier
italiano; negli accordi Obor non si parla di 5G. Oggi, ma domani?
E' chiamata OBOR (One Belt One Road) o più sinteticamente BRI (Belt and Road Initiative) o più romanticamente Via della Seta.
Ferrovie, strade, porti, logistica dalla Cina verso il mondo. Con il Piano Marshall è probabilmente il più grande investimento
economico mai pensato da un paese fuori dai suoi confini nazionali. Ma come quello americano per la ricostruzione dell'Europa
dopo il conflitto mondiale, bisogna essere miopi o in malafede per non riconoscerne l'aspetto geopolitico.
Non sono solo affari, sebbene gli affari ci siano, cospicui e principalmente in una direzione: dalla Cina (le sue merci e
la sua manodopera) al resto del mondo, e molto meno viceversa. I paesi africani e asiatici che hanno aderito a OBOR hanno
un debito crescente che non controllano; firmano progetti infrastrutturali sempre poco trasparenti, a volte inutili per loro,
spesso fatiscenti prima che se ne concluda la costruzione.
Il vero avversario del nostro sistema di vita occidentale non è la Russia, il cui imperialismo è da XIX secolo: è una superpotenza
per via dei suoi nove fusi orari e dell'arsenale nucleare. Produce armi ma non beni di consumo; usa la sua migliore gioventù
come trolls politici, non per creare startup.
La Cina è una Smart Nation millenaria. Sta sviluppando una forza militare ma prima ha creato un'economia, ha garantito un
benessere crescente alla sua popolazione. Il suo imperialismo per il XXI secolo non avviene per basi militari (comunque ne
ha già due a Gibuti e nel Tajikistan) o per interferenza nei conflitti, ma con un'economia vibrante ed espansiva che garantisce
sempre un po' di ricchezza anche ai suoi associati.
Il modello creato da Deng Xiaoping per uscire dal maoismo, era geniale. Non era democratico ma ogni dieci anni il partito
rinnovava completamente i suoi quadri: dal vertice alla periferia. Poi è arrivato Xi Jinping (che Di Maio chiama “il Presidente
Ping” non sapendo neanche che in Cina il cognome viene prima del nome che comunque è Jinping). E oggi la Cina è una perfetta
ed efficiente autocrazia: la più avanzata del mondo. Servendosi delle tecnologie più nuove, il governo sta realizzando un
sistema di sorveglianza totale dei suoi cittadini. Il sociologo della democrazia Larry Diamond lo ha chiamato “Totalitarismo
post-moderno: agli individui sembrerà di essere liberi di svolgere la loro vita quotidiana”. Ma lo Stato controllerà tutto,
anche i pensieri e i sentimenti.
Nelle decisioni del governo italiano ora a maggioranza 5 Stelle, è palese un sottile sentimento anti-sistema. Prima delle
elezioni del 4 marzo la parte dedicata alla politica estera del suo sito, esaltava modelli politici ed economici diversi da
quello occidentale. Ma se il nemico è l'imperialismo americano, l'alternativa non è migliore. La Cina è imperialista dalla
sua nascita. Come sosteneva lo studioso Lucian Pye, i cinesi sono convinti di appartenere a “una civiltà che finge di essere
uno stato-nazione”.
Si può – anzi, si deve – fare business con questo grande paese senza impegnarsi in un ambiguo programma politico ed economico
come OBOR. Ancor più di quelli citati del G7 e dell'Unione Europea, l'esempio migliore è l'India. Nella corsa alla leadership
fra i paesi emergenti, la Cina è la nemesi delle ambizioni indiane. A costo di restare isolati nell'Asia meridionale da quella
che loro chiamano con grazia “filo di perle”, gli indiani rifiutano ogni offerta di OBOR. Tuttavia Pechino è il primo partner
commerciale di Delhi, i suoi investimenti in India superano gli otto miliardi di dollari. L'interscambio fra i due paesi è
di 80 miliardi di dollari, 51 dei quali a favore della Cina.
Non c'è dunque necessità di aderire alla Via della Seta, per restare vigili amici di un grande paese come il Regno di Mezzo,
da 5mila anni convinto di presidiare lo spazio fra cielo e terra, al centro dell'universo.
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