Il parlamento britannico ha respinto per la terza volta l’accordo di divorzio tra Londra e la Ue siglato da Theresa May, con 344 voti contrari e 286 voti favorevoli. Il «deal» siglato da May è Bruxelles esce sconfitto con uno scarto di 58 voti: un risultato meno umiliante rispetto ai 149 e 230 voti di differenza del 12 marzo e del 15 gennaio, ma comunque quanto basta a rimandare per l’ennesima volta un verdetto definitivo sul divorzio. La premier ha cercato fino all’ultimo di incassare il via libera della Camera dei Comuni, apportando le «modifiche sostanziali» al testo richieste dallo speaker John Bercow e trattando con le ali più riottose della sua maggioranza. Non è servito: sull’insuccesso di oggi, il terzo nell’arco di meno di tre mesi, pesano il voto ostile del Democratic unionist party (gli unionisti nordirlandesi) e di una fronda robusta di conservatori. Alcuni oltranzisti pro-Brexit, come Boris Johnson e Jacob Rees-Mogg, hanno ceduto e dato il loro ok, ma a quanto pare l’ala più intransigente del partito è rimasta sfavorevole.
May era arrivata ad offrire le sue dimissioni in cambio di un’approvazione in extremis del suo patto, escludendo peraltro dal fascicolo di voto la dichiarazione politica che accompagnava il testo respinto due volte dalla Camera. Ora, a quanto ha precisato il caponegoziatore europeo Michel Barnier, Londra dovrà comunicare entro il 12 aprile come intende procedere. Da Bruxelles fanno sapere che l’ipotesi di una rottura no-deal è «sempre più probabile». May non sembra comunque intenzionata a fare un passo indietro, dichiarandosi pronta a lottare perché «la Brexit sia attuata».
Un’odissea durata tre anni
Arriva così una nuova giornata di dramma per un’odissea diplomatica iniziata il 23 giugno 2016, quando la maggioranza dei
cittadini britannici ha votato a favore del leave: l’uscita di Londra dalla Ue, l’ipotesi materializzata “grazie” al referendum
voluto dall’allora premier David Cameron. Da allora sono trascorsi quasi tre anni e un numero imprecisato di colpi di scena,
incluse le svariate batoste di May: la premier che ha preso le redini del divorzio dopo le dimissioni di Cameron, andando
incontro a un processo travagliatissimo di negoziati sia con i partner europei che con il suo stesso governo. May aveva
strappato lo scorso autunno il patto votato oggi, ripresentandosi alla Camera dei Comuni con un accordo che ha lasciato l’amaro
in bocca alle fronde più intransigenti del suo partito. Il nodo più controverso sono sempre rimasti i confini irlandesi, a
partire dal cosiddetto backstop: la clausola per garantire che non vengano eretti confini fisici tra Irlanda e Irlanda del
Nord anche dopo la rottura con la Ue. Dopo le due bocciature all’accordo May, il parlamento britannico ha provato a riprendere
in mano l’agenda della Brexit con la convocazione di otto «voti indicativi» (emendamenti non vincolanti per improntare una
linea) mercoledì 27 marzo. Tutti e otto sono stati bocciati, rimandando alla discussione e al voto del 29 marzo.
Cosa succede ora. May: ora elezioni europee quasi certe
May non ha nascosto la sua frustrazione per l’ennesimo schiaffo della Camera, proiettando Londra verso una «quasi certa
partecipazione» alle elezioni europee. Da qui alle dimissioni, comuque, il passo è ancora lungo. Nonostante l’offensiva dell’opposizione,
laburisti in testa, la premier ha dichiarato che resterà il suo posto, tentando di traghettare Londra verso un’uscita che
eviti lo spettro di un no-deal. Il presidente del Consiglio europeo Donald Tusk ha già convocato un summit il 10 aprile sul
dossier Brexit. Funzionari europei, interpellati dalle agenzie internazionali, spiegano che i leader deio 27 restanti paesi
Ue sono «molto preparati» allo scenario di una rottura senza accordi. La sterlina è scivolata su euro e dollaro, manifestando
l’ansia dei mercati per un divorzio senza accordi tra Londra e la Ue.
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