Condizionati dalle mille speranze affogate nel sangue, ci eravamo convinti che le cosiddette “Primavere arabe” fossero solo un evento, un episodio: accade, fallisce, finisce. Invece non è così: quel gigantesco sommovimento sociale e politico dal Maghreb alla penisola arabica, era una dinamica: era scoppiato per delle cause discernibili e si è sviluppato fra alti e bassi, a seconda dei Paesi interessati.
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Oggi è più facile constatare l’evidenza degli aspetti fallimentari delle Primavere: in Egitto governa Abdel Fattah al Sisi che è di gran lunga peggio del predecessore Hosni Mubarak; a Damasco c'è sempre la famiglia Assad e la Siria è un Paese distrutto dal regime, dalle milizie sue avversarie e soprattutto dall’Isis, che per qualche anno ha fatto credere alla rinascita di un califfato medievale.
Eppure, di fronte a questa devastazione, ecco che inaspettatamente accadono cose diverse. Per settimane i giovani algerini, poi i loro docenti, i contadini, gli operai hanno occupato le piazze per chiedere le dimissioni del presidente Abdelaziz Bouteflika al potere da 20 anni. Era una richiesta politica: quella categoria di rivendicazioni alle quali i regimi arabi non sapevano rispondere se non con la violenza. Ad Algeri, invece, non è accaduto nulla a nessuno: tranne che al presidente costretto a dimettersi.
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Ora è la volta del Sudan, dove Omar al-Bashir era al potere da 30 anni. Qui le violenze del regime ci sono state ma per mesi le proteste non si sono fermate. Così determinate da spingere i militari a deporre il dittatore e a promettere riforme. In un Paese ultra-conservatore e islamista, la rivoluzione è stata in buona parte condotta dalle donne.
In Libia invece la tradizione mediorientale del dare la parola alle armi e alle milizie continua a essere rispettata. Ma la Libia – quella inventata dagli italiani, quella governata da Gheddafi e quella di oggi fatta di tribù, deserto e petrolio – è un non-Paese. Eppure la strana guerra a bassa intensità che si sta combattendo potrebbe essere quella decisiva, dalla quale finalmente partire con la politica e la diplomazia. Soprattutto se italiani e francesi smettessero di giocare partite diverse.
Nei tre casi che sono contemporaneamente arabi, mediorientali e africani, sia per geografia che per geopolitica, i giochi sono ancora aperti. L’obiettivo originario delle primavere, nel 2011, era di trasformare in civili e possibilmente democratici, regimi che erano militari e polizieschi. In Algeria e Sudan le proteste hanno avuto successo perché i militari hanno abbandonato il potere perdente (originato da loro) e abbracciato la piazza (che contano di controllare). Se non lo avessero fatto, avremmo assistito agli stessi massacri e alla stessa repressione dell’Egitto e della Siria.
Forse anche questa volta i militari continueranno a cavalcare gli eventi e a vendersi come i promotori delle riforme. Ma ciò che ci dimostra quanto sia vivo e dinamico il concetto politico che sottende la parola “Primavere”, è che un Paese dopo l'altro, la necessità di cambiare non si ferma. Fra Terrore, Termidoro, Napoleone, la Restaurazione e i prussiani, alla Rivoluzione francese è servita un'ottantina d'anni per affermare stabilmente la sua idea originale di una repubblica fondata su libertà, uguaglianza e fraternità tra i suoi cittadini.
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