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la guerra dei dazi

La Cina vende 10 miliardi di titoli di Stato Usa ma rischia una fuga di capitali

Lo scontro sui dazi tra Cina e Stati Uniti sta ormai travalicando le tensioni commerciali, aprendo scenari (e suggestioni) persino più pericolosi e complessi di un rincaro dei prezzi della soia, dei computer o della carne di maiale. Ieri si è avuta conferma non solo della “manovra a tenaglia” messa in atto da Pechino sulle aste di T-Bond e sullo stock di debito americano - la Cina ha liquidato il mese scorso altri 10,4 miliardi di dollari di titoli sovrani Usa, portando a 67 miliardi di dollari il taglio totale accertato negli ultimi 12 mesi - ma anche dei danni e dei costi a cui va incontro la Cina alzando il tiro contro Trump: il primo e più immediato, è il rischio di una destabilizzante fuga di capitali esteri dalla Borsa di Shanghai e soprattutto dalla piazza finanziaria di Hong Kong, dove hanno già cominciato a soffiare i primi venti di tempesta.

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Una tempesta che, almeno per ora, non preoccupa più di troppo gli americani: anche se la Cina continua a vendere titoli di Stato, gli acquirenti interessati non mancano di certo sul mercato internazionale. Il Tesoro americano ha comunicati ieri che il valore dei T-Bond in mano ai governi stranieri è salito di 88 miliardi di dollari in aprile su marzo e di oltre 250 miliardi di dollari nell’arco di un anno. Tra i maggiori acquirenti c’è anche l’Italia, che in marzo ha aumentato il portafoglio di TBond di 2 miliardi di dollari a 44 miliardi, un livello da record. Al contrario, la Francia ha tagliato il portafoglio in bond Usa di circa 6 miliardi di dollari su base mensile.

In Asia, invece, la tensione cresce velocemente. Con l’escalation dei dazi e delle minacce, il dollaro di Hong Kong è sceso infatti ai minimi degli ultimi 33 anni, mettendo a dura prova la “resistenza allo stress” del Currency Board: l’Autorità monetaria è stata costretta a intervenire già due volte nell’ultima settimana a sostegno della valuta, mentre solo martedì scorso i deflussi netti dalla Cina lungo l’asse Shanghai-Hong Kong hanno totalizzato 1,6 miliardi di dollari, il picco più alto dalla crisi valutaria cinese di 4 anni fa.

Per gli analisti, si tratta di una chiara reazione difensiva degli investitori internazionali davanti agli scenari fuori-controllo: la fuga dal rischio cinese (e il volo verso la sicurezza dei T-Bond americani) è costata una perdita del 12% all'indice Shanghai Composite. Le stesse società cinesi, che hanno in portafoglio oltre 840 miliardi di dollari di debito onshore, si sono lanciate sul mercato a fare provvista in valuta americana per evitare il rischio di potenziali default: nell’arco di cinque sole sedute, lo yuan ha subito la perdità più pesante in quasi un anno, con il tasso di cambio che è arrivato a 6,88 ¥ contro il dollaro: la linea considerata finora invalicabile dalle autorità cinesi è stata di 6,90 yuan per un biglietto verde. Persino i Bitcoin - notoriamente utilizzati in Asia per esportare capitali illegalmente - sembrano essere entrati nella partita: malgrado la stretta delle autorità di regolamentazione cinesi, i Bitcoin sono saliti del 40% da venerdì scorso, superando con slancio gli 8.000 dollari: il prezzo della crypto-valuta (come è accaduto durante l’ultima crisi tra Stati Uniti e Corea del Nord) è raddoppiato nell’arco di poche settimane. Se si tratta di scommettere su chi rischia di più tra Cina e Stati Uniti, insomma, il mercato ha detto chiaramente su chi punta: per quanti bond americani possa vendere, la Cina ha bisogno di dollari per tenere sotto controllo il cambio dello Yuan.

Più tempo passa senza un accordo con gli Usa, più il mercato finanziario si trasforma in un volano di paure e di operazioni speculative.

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