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Perché ora Powell apre al taglio dei tassi

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Perché ora Powell apre al taglio dei tassi

dal nostro corrispondente

NEW YORK - L’incertezza per l’economia globale a causa del perdurare della crisi tra Stati Uniti e Cina. I dazi americani che dal 10 giugno partiranno su tutti i prodotti made in Messico, che colpiranno consumatori e grandi gruppi Usa che hanno delocalizzato nel paese. Il mese di maggio che per i mercati finanziari è stato il peggiore dal 2010. E l'economia americana che rallenterà attorno al 2% nella seconda metà dell'anno stando alle previsioni, con il rischio di recessione che si intravede all'orizzonte nel giro di boa dell'anno delle elezioni. Tutti fattori che combinati hanno cambiato l'atteggiamento della Fed e di Jerome Powell negli ultimi giorni. «Faremo tutto quanto necessario per sostenere l'economia americana», ha detto parlando a Chicago. Nelle parole sibilline, tipiche del dico e non dico dei linguaggi dei governatori centrali, Powell apre o quanto meno non esclude alla possibilità che si possa arrivare a tagliare i tassi monetari Usa, se le cose dovessero davvero peggiorare.

L'aria è cambiata. A dicembre la Fed parlava di due rialzi dei tassi possibili nel 2019. A gennaio l'atteggiamento è mutato: zero rialzi e tassi fermi per tutto l'anno. Ora, venendo anche incontro alle pressanti richieste di Trump e dei consiglieri falchi della Casa Bianca e di alcuni presidenti delle Fed locali (gli ultimi in ordine di tempo sono Charles Evans della Fed di Chicago e James Bullard della Fed di St. Louis), Powell non esclude che possano essere tagliati addirittura i tassi nel prossimo futuro, e attuare politiche espansive pur di sostenere l'economia della prima potenza mondiale.

Il governatore nel suo discorso non ha mai direttamente pronunciato la frase “taglio dei tassi”. Ma l'ha fatto intendere dicendo che la banca centrale “monitora attentamente” l'impatto degli sviluppi delle battaglie commerciali sull'economia ed è pronta “in tempi di tanta incertezza” ad “agire in modo appropriato” ai rischi della trade war per sostenere la crescita.

È quello che i mercati volevano sentire. La Fed sosterrà l'economia anche se le guerre protezionistiche di Trump dovessero affossarla in parole povere. A metà giornata l'indice Dow Jones guadagnava 400 punti. I titoli tecnologici, dopo la giornata nera di ieri nella quale hanno lasciato sul campo 130 miliardi di market cap, salivano oltre il 2%. Lo stesso i titoli finanziari. In rialzo nove degli undici principali settori dell'indice S&P. A fine seduta il Dow Jones ha chiuso a +2,06, il Nasdaq a +2,65% e lo S&P a +2,14 per cento.

Borse euforiche nonostante Trump da Londra ha confermato che dal 10 giugno saranno imposti dazi su tutti i prodotti “made in Mexico” esportati negli Stati Uniti. E ha ribadito che le barriere tariffarie saranno del 5% in un primo momento, ma saliranno al 25% a ottobre se il governo messicano non interverrà con politiche più incisive per contrastare l'immigrazione clandestina.

Nelle ultime settimane Trump ha alzato il tiro delle sue politiche protezionistiche. Ha aumentato i dazi contro la Cina, rompendo di fatto i negoziati. Ha messo il bando su Huawei e su chi collabora con lei. Fino all'ultima decisione di tassare il Messico contro i clandestini e di imporre dazi all'India. La Cina ha risposto con i suoi contro dazi contro gli Usa. E il mese di maggio è stato il peggiore dell'anno per i mercati. A Wall Street il Dow Jones e l'S&P 500 hanno perso il 6,52%, il Nasdaq il 7,85%. Male anche i mercati europei, con l'indice Stoxx 600 che ha ceduto il 6,07% e Piazza Affari maglia nera con quasi il 10% lasciato sul terreno. Male anche il Giappone (-7,45%) e la Cina, con la Borsa di Shanghai che ha perso il 7,59% e quella di Hong Kong addirittura il 9,42%. Nel complesso nel solo mese di maggio a livello globale sui mercati finanziari sono stati bruciati circa 5mila miliardi di capitalizzazione, secondo Deutsche Bank.

Le guerre commerciali pesano anche sugli Stati Uniti. La crescita economica del 3,1% del primo trimestre (la seconda lettura del Pil scesa dello 0,1% dal 3,2%) rischia di essere un episodio. Analisti ed economisti parlano ora di una crescita attorno al 2% per la seconda metà dell'anno.

Certo, come ha ricordato Powell, negli Usa c'è «un mercato del lavoro forte» con la disoccupazione scesa al 3,6% ai minimi da 50 anni e «l'inflazione che è vicina al nostro obiettivo del 2%», ha detto il governatore.

Dal dicembre 2015 la Fed ha alzato i tassi nove volte, compresi i quattro ritocchi dello scorso anno. A gennaio è arrivato lo stop rispetto a ulteriori rialzi con un atteggiamento definito “paziente” dal governatore. Cautela che continua a esserci ma con uno spiraglio dunque a un cambio di rotta verso un taglio dei tassi. Molti analisti prevedono che i tassi resteranno al 2,25-2,5% attuale sino alla fine dell'anno, con i tagli che potrebbero arrivare all'inizio del 2020. Ma bisognerà vedere.

Morgan Stanley parla di recessione in arrivo per gli Stati Uniti da gennaio. Tre big bank americane hanno già rivisto le loro previsioni sui tassi: Jp Morgan Chase & co. vede ora due tagli dei tassi per il 2019. Barclays addirittura parla di tre tagli attesi. Il primo taglio potrebbe arrivare presto: Bank of America prevede al 53% la probabilità di un primo taglio dei tassi alla riunione della Fed di luglio.

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