I dazi come arma per costringere il Messico a fermare le migrazioni non piacciono nemmeno al Partito repubblicano, che minaccia di bloccare la misura proposta dal presidente Donald Trump.
Frustrato per la mancanza di progressi su uno dei suoi più importanti cavalli di battaglia e dallo stallo sulla costruzione di un muro al confine, la scorsa settimana Trump ha minacciato dazi del 5% su tutte le importazioni dal Messico a partire dal 10 giugno, aggiungendo che i balzelli salirebbero del 5% per ogni mese fino al 25% a ottobre, se non ci saranno risultati. E poco importa se alla fine del 2018, dopo mesi di negoziati e minacce, Stati Uniti, Messico e Canada hanno sottoscritto un accordo per sostituire il vecchio Nafta con il nuovo Usmca, chiudendo in apparenza uno dei tanti fronti aperti dalla Casa Bianca nella sua guerra dei dazi.
Riaprire lo scontro con il Messico non sembra però convincere nemmeno uno dei falchi (ma anche uno dei funzionari più preparati) dell’Amministrazione, Robert Lighthizer, il rappresentante al Commercio. Lighthizer avrebbe confidato ai suoi collaboratori che gli Stati Uniti non possono permettersi un nuovo fronte, dopo quello con la Cina e in vista dei negoziati con l’Europa.
Contro i dazi si sarebbe schierato anche il segretario al Tesoro, Steve Mnuchin. Il rischio sarebbe quello di far deragliare la pur solida crescita del Paese. Negoziatori messicani e statunitensi, proprio in queste ore stanno cercando un compromesso per sminare la situazione creata da Trump.
A uscire allo scoperto sono i leader dei Repubblicani in Senato, a cominciare dal capogruppo Mitch McConnell: «Non vedo molto consenso su questi dazi», ha affermato, senza però spingersi a chiarire se il Senato sia pronto a votare contro la misura. Sulla stessa linea, Ron Johnson, presidente della commissione per la Sicurezza interna. Per Rand Paul, il fronte contrario alle tariffe in Senato avrebbe i numeri per superare anche un eventuale veto presidenziale. Si conterebbe su uno schieramento bipartisan e sulla netta opposizione espressa dai Democratici.
Tra i Repubblicani si sta facendo addirittura strada l’ipotesi di votare una legge che revochi tutti i dazi imposti dall’Amministrazione.
Per imporre i dazi contro il Messico, Trump dichiarerà una situazione di emergenza internazionale e farà leva sullo International Economic Powers Act, una legge usata per congelare asset di personaggi organizzazioni sotto sanzioni e mai impugnata per adottare nuove tariffe commerciali. Ma non sarebbe la prima forzatura messa in atto dalla Casa Bianca, che ha imposto dazi su acciaio e alluminio affermando che le loro importazioni minacciano la sicurezza nazionale e minaccia di fare altrettanto con le auto. L’obiettivo di Trump sarebbe quello di utilizzare il gettito dei balzelli, pagato da imprese importatrici e consumatori americani, per finanziare il muro.
Se Washington si agita, Città del Messico è sull’orlo della crisi di nervi, ma ostenta ottimismo: il ministro degli Esteri, Marcelo Ebrard, si dice convinto che un compromesso si troverà. «Tariffe del 5%- sottolinea in una nota Claudia Calich, manager del fondo M&G (Lux) Emerging Markets Bond di M&G Investments - sono più alte non solo di quelle in vigore prima dell’avvento del Nafta, quando erano al 4%, ma anche più alte della media delle tariffe del Wto, al 2,5%. Tariffe del 25% sarebbero estremamente punitive per l’export messicano verso gli Usa, che rappresenta l’80% dell’export totale del Paese». L’impatto sull’economia messicana - aggiunge Calich -«in una prima fase potrebbe tradursi in maggiori incertezze a discapito della crescita, in un Paese come il Messico che già si trova prima di tutto a dovere fare i conti con una crescita molto lenta». Stime di vari economisti messicani valutano l’impatto sul Pil in una forbice compresa fra il -0,45% (con le tariffe al 5%) e un -1,2% (con le tariffe al 25%).
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