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Non basta dire start-up, la sfida è creare valore e lavoro

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L'Analisi|iese business school

Non basta dire start-up, la sfida è creare valore e lavoro

Il ceo di Facebook, Mark Zuckerberg, durante una convention a San Jose, in California
Il ceo di Facebook, Mark Zuckerberg, durante una convention a San Jose, in California

Periodicamente, l’imprenditorialità e la creazione di nuove imprese vengono riportate al centro del dibattito politico ed economico e indicate come la soluzione – o almeno come una delle principali soluzioni da sostenere – per la disoccupazione, la crescita e lo sviluppo economico del Paese. Ma è davvero così? Quando pensiamo ad un imprenditore, spesso la figura che ci viene in mente è qualcuno come Steve Jobs o Mark Zuckerberg. In realtà, i numeri dicono che la scelta imprenditoriale porta generalmente a guadagnare meno di quello che si sarebbe potuto ottenere con un lavoro dipendente (anche al netto di possibili distorsioni dovute alla sottostima del reddito autonomo).

Alcuni imprenditori ottengono risultati straordinari, ma sfortunatamente la maggior parte di essi deve fare i conti col fallimento.
Perché, allora, cercare – e promuovere – l’attività imprenditoriale se il risultato atteso è negativo? Dal punto di vista del possibile futuro imprenditore, va considerato il fatto che la ricchezza non è necessariamente l’unico obiettivo perseguito. Per esempio, si può valutare positivamente la propria indipendenza e autonomia. Tuttavia, questo beneficio privato non deve essere garantito dalla cosa pubblica.

Da un punto di vista sociale, invece, una ragione invocata frequentemente è che le start-up creano nuovi posti di lavoro. Se guardiamo ai dati aggregati, può sembrare cosi. In realtà, uno studio recente condotto da Thomas Astebro e Joacim Tag che considera l’universo delle attività economiche svedesi, dimostra che – in media – un nuovo imprenditore non crea nessun nuovo posto di lavoro che non sia il suo; e in ogni caso, normalmente, arriva alla scelta imprenditoriale da un lavoro dipendente, non dalla disoccupazione. Ovvero, generalmente la creazione di nuove imprese porta a un flusso da lavoro dipendente a start-up, ma non necessariamente alla creazione di nuovi posti di lavoro. Inoltre, dati recenti relativi alla Danimarca rivelano che un individuo assunto come dipendente da una start-up guadagna significativamente di meno nei dieci anni successivi rispetto a un individuo dalle caratteristiche simili che trova invece impiego presso una grande azienda.

Perché, allora, questa attrazione per le start-up?
La verità è che sovente si diventa imprenditori non perché spinti dal voler cogliere una opportunità che nessun altro ha visto, una opportunità che può realmente creare valore, ma semplicemente per necessità. E se questo è certamente ancor più vero nei Paesi in via di sviluppo, ove spesso mancano alternative reali per assicurarsi un reddito, è vero anche nelle economie più consolidate.
Per esempio, uno studio che ho condotto con Raffaele Conti (Università Cattolica di Lisbona) e Olenka Kacperczyk (London Business School), mostra chiaramente che negli Stati Uniti una delle motivazioni che spinge gli individui a fondare la propria impresa è la discriminazione sul posto di lavoro. Quando si è discriminati dal proprio capo e non si ottiene quanto dovuto o atteso, la soluzione può essere il voler diventare il capo di sé stessi. Al contrario, quando la discriminazione diminuisce, le persone sono meno propense a lasciare il lavoro dipendente per cominciare una propria attività. Soprattutto, qualora decidano di farlo, le nuove imprese create sono a più alto contenuto tecnologico, possono più facilmente attingere a finanziamenti di venture capital, e hanno un maggior tasso di sopravvivenza. In sostanza, pur con tutte le incertezze del caso, si fonda una nuova impresa solo quando sembra ne valga realmente la pena.

Sì, perché spesso ci si dimentica che esistono due tipi di imprenditorialità: quella routinaria (per fare un esempio banale, l’ennesima pizzeria) e quella ad alto contenuto tecnologico o potenziale di crescita. È alla seconda che dobbiamo principalmente puntare per lo sviluppo. E il modo migliore per farlo è semplicemente quello di creare le istituzioni e le infrastrutture che permettano a chi ha davvero le capacità di vedere e cogliere queste opportunità di farlo nel migliore dei modi.

(Professore di Strategic Management alla IESE Business School)

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