Un chip impiantato nel cervello per aiutare le persone che hanno perso la memoria. Non è una scena di un film di fantascienza
ma quello che alcuni ricercatori americani stanno testando in via sperimentale su esseri umani. La Defense Advanced Research
Project Agency (Darpa), agenzia di ricerca sulle tecnologie più avanzate che fa capo al Pentagono, negli ultimi cinque anni
ha investito 77 milioni di dollari sviluppare dei dispositivi elettronici da impiantare nel cervello come delle protesi per
il recupero della memoria di pazienti che hanno subito traumi alla testa. Sorta di chip per aumentare la memoria ma del cervello
umano.
Due gruppi di ricercatori dallo scorso anno hanno cominciato a condurre i primi test su pazienti e hanno pubblicato i risultati delle sperimentazioni. Il “chip di memoria” è stato creato da Michael Kahana, professore di psicologia all'Università della Pennsylvania assieme alla società di tecnologia medicale Medtronic. Intervistato da Bloomberg, il professor Kahana ha mostrato i video dei primi test condotti su alcuni pazienti al campus ospedaliero della Mayo Clinic, in Minnesota. In uno dei video, sgranato e in bianco e nero, si vede un paziente seduto in un letto di ospedale con il capo completamente avvolto da un bendaggio. Il professore durante un test sulla memoria gli chiede di ricordare 12 parole. Il paziente riesce a pronunciarne solo tre: balena, buca e zoo. Fa una lunga pausa e poi si arrende affondando il capo tra le mani. Nel secondo video lo stesso paziente ricorda le 12 parole senza esitazione. “Sul serio!: le hai dette tutte” rileva con entusiasmo il ricercatore. Il paziente nel secondo video aveva l'aiuto della protesi-chip impiantata nella corteccia cerebrale dorso-laterale, quella legata alla working memory.
“Come dei meteorologi che prevedono il tempo utilizzando dei sensori nell’ambiente che misurano parametri come umidità, velocità del vento e temperatura, noi mettiamo dei sensori nel cervello che misurano i segnali elettrici”
Michael Kahana, professore di psicologia all'Università della Pennsylvania
«Come dei meteorologi che prevedono il tempo utilizzando dei sensori nell'ambiente che misurano parametri come umidità, velocità del vento e temperatura, noi mettiamo dei sensori nel cervello che misurano i segnali elettrici», spiega lo scienziato americano. Se l'attività cerebrale è al di sotto del livello ottimale il dispositivo invia un piccolo “reset” al cervello, che il paziente non avverte nemmeno, per migliorare il segnale e aumentare la possibilità di ritrovare la memoria. I ricercatori hanno concluso che il prototipo di protesi cerebrale migliora la memoria dei pazienti dal 15 % al 18 per cento.
La seconda squadra di ricercatori ha condotto i primi test su pazienti umani al Wake Medical Center di Winston-Salem, in North Carolina, con la collaborazione dell'Università della Southern California e una metodologia più accurata che ha permesso miglioramenti nel recupero della memoria dei pazienti di circa il 40%, secondo le conclusioni dello studio. «Le domande su cui ci siamo concentrati sono state su questioni legate alla memoria breve, legate alle attività quotidiane, del tipo: Hai preso la pillola?. Dove hai parcheggiato l'auto? Dove sono le chiavi?», dice il professor Robert Hampson a capo del team di ricercatori e autore dello studio. Per la formazione della memoria breve diversi tipi di neuroni lavorano nella medesima direzione, trasmettendo al cervello una sorta di codice.
«Il codice è diverso per ogni ricordo e per ogni persona», spiega lo scienziato. Studiando il comportamento di una dozzina
di neuroni nell’ippocampo, l’area del cervello responsabile della formazione della memoria, il team di ricercatori è riuscito a individuare i codici che indicano la corretta formazione della memoria. Quando la formazione di questa memoria in alcuni pazienti non riesce come dovrebbe vengono trasmessi questi codici alla
mente, come degli impulsi per sostenere il processo di formazione della memoria. Il professore di bioingegneria Theodore Berger
della Southern California University ha sviluppato dei modelli matematici che hanno aiutato il team del professor Hampson
a interpretare i codici dei messaggi lanciati dai neuroni.
I test sperimentali dei “chip di memoria” al cervello sono stati effettuati su malati di epilessia: gli elettrodi-sensori
sono stati impiantati nel cervello di ogni paziente per monitorare i segnali elettrici. Ogni dispositivo per funzionare necessita
di un hardware esterno particolarmente ingombrante impossibile da impiantare in un cranio, almeno per ora.
Il prossimo obiettivo dei ricercatori, difatti, è quello di riuscire a costruire dei device più piccoli in modo da poterli impiantare nei pazienti. Altro passaggio indispensabile per il futuro di queste ricerche biomediche hi-tech sarà riuscire a ottenere l'autorizzazione della Food and Drug Administrazion per poter commercializzare i dispositivi. La start up Nia Therapeutics sta già lavorando per realizzare un dispositivo micro da poter impiantare nel cervello, a partire dalla tecnologia sviluppata in via sperimentale nell'ospedale universitario del Minnesota dal professor Kahana.
I ricercatori dei due team pensano che questi “chip del cervello” potrebbero essere utili anche per i malati di Alzheimer. La strada da fare è ancora tanta. Ma la ricerca va avanti. Justin Sanchez, direttore dell'ufficio di biotecnologia del Darpa
da poco in pensione, si è offerto come volontario per farsi impiantare la prima protesi di memoria quando sarà pronta. La
non invasività dei dispositivi sarà determinante per la loro diffusione.
Oggi sempre di più gli umani vivono con gli occhi attaccati continuamente a uno schermo di uno smartphone. Chissà se in un domani non lontano il chip di memoria e quello di un processore potrà essere davvero impiantato direttamente nel cervello. In America ci credono e stanno già lavorando per tentare di vincere la sfida.
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