Cederà, o no? Le pressioni di Donald Trump sulla Federal reserve diventano sempre più forti, mentre le tensioni protezionistiche - create dal nulla dalla Casa Bianca - continuano a porre rischi alla crescita. Tutto sembra spingere la banca centrale Usa verso l’apertura di una nuova fase espansiva o almeno a prepararla (come sta facendo, in una situazione in buona parte diversa, la Banca centrale europea).
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Verso un nuovo orientamento?
La riunione di ieri e oggi, con la pubblicazione delle nuove proiezioni macroeconomiche e i “dots”, che riassumono le intenzioni
sui tassi dei banchieri centrali, permetterà di fare il punto della situazione. Nessuna decisione è prevista, ma questo non
significa che l’appuntamento non sia importante per interpretare l’orientamento di politica monetaria della Fed, malgrado
sia diventato, con Powell, più difficile da decifrare (e questo è un errore, per chi deve plasmare le aspettative di inflazione).
Inflazione indebolita
Il problema della Federal reserve non è nuovo, né coinvolge solo gli Usa. L’inflazione è bassa, inferiore all’obiettivo “simmetrico”
del 2%. L’indice Pce, preferito dalla Fed, è calato a marzo all’1,4% per poi risalire ad aprile all’1,5%. L’inflazione core,
che negli Usa tende ad “aprire la strada” a quella complessiva, era ad aprile all’1,6%. L’indice al consumo (Consumer Price
Index), più simile a quelli “europei”, è però all’1,8% in maggio, con un core in lieve calo al 2%.
Non sembra, insomma, una situazione simile a quella di Eurolandia, dove la velocità dei prezzi e più bassa e, soprattutto,
le aspettative sono in calo. L’inflation swap rate 5y-5y - a cinque anni per i cinque anni successivi: di lungo periodo, quindi
- indica per la Uem un 1,1%, per gli Usa l’1,9%. È, complessivamente, una situazione che richiede attenzione, ma non sembra
giustificare un’inversione di marcia.
Dollaro stabile
Le condizioni finanziarie non sembrano essersi irrigidite, negli ultimi tempi. L’indice S&P, che Powell cita sempre quando il discorso cade su questo argomento, non è lontano dai massimi e anche se in sostanza ha semplicemente recuperato i livelli di settembre, almeno ha azzerato l’irrigidimento delle condizioni che aveva un po’ allarmato la Fed nell’ultimo trimestre dell’anno. Il dollaro - malgrado le proteste di Trump, che vorrebbe un cambio più favorevole anche per assorbire l’effetto dei dazi - continua a muoversi in un corridoio stabile e relativamente stretto, sia pure relativamente elevato.
Rendimenti in flessione
La componente più importante, nella definizione delle condizioni monetarie e finanziarie, è però costituita dai rendimenti, che continuano a calare. I tassi a breve restano relativamente elevati, appena al di sotto dei livelli di fine anno - e questo può spiegare la stabilità del cambio - ma già i rendimenti a due anni sono inferiori a quelli della fine del 2017, e quelli di più lungo periodo, oltre i cinque anni, sono inferiori anche ai tassi espressi alla fine del quantitative easing. Nel complesso si può dire che le condizioni monetarie siano migliorate.
Recessione più probabile
Preoccupa però l’inversione della curva. Attualmente un decennale rende il 2,09% mentre il tasso a tre mesi è al 2,2%: in
circostanze normali dovrebbe esserci uno spread più ampio (era di 2,3 punti percentuali alla fine del quantitative easing)
per compensare i maggiori rischi, innanzitutto di inflazione che incontra chi invece a dieci anni. Questa anomalia, in passato,
ha spesso anticipato una recessione entro un anno. La Federal reserve di Cleveland calcola attualmente al 34% la probabilità
di una crisi entro maggio 2020.
Per una Fed che, nel suo mandato, ha anche la piena occupazione - anche se in concreto è una formula che le attribuisce solo
un po’ di flessibilità in più verso l’obiettivo di fatto prioritario dell’inflazione - potrebbe essere un reale motivo di
preoccupazione. I dati effettivi del pil - per quanto relativi al passato non segnalano però problemi: anzi i ritmi di crescita
trimestrale e annuale sono in accelerazione.
La brusca flessione dell’offerta di moneta
In prospettiva, però, qualcosa potrebbe davvero cambiare. Dopo la scossa del quantitative easing, l’offerta di moneta - la massa monetaria M1 - è cresciuta a lungo seguendo un percorso stabile, corrispondente grosso modo a un incremento mensile dello 0,8%, pari al 9% annuo, legato all’andamento dell’economia e indipendente dalla crescita o la decrescita della “liquidità” offerta dalla banca centrale Usa. Questo ritmo è repentinamente rallentato da maggio 2018, quando la massa monetaria si è “staccata” dal trend.
L’effetto dirompente di contrazione e dazi
Perché? A febbraio 2018 la base monetaria aveva di nuovo cominciato a ridimensionarsi ma nel 2015, in occasione della precedente
contrazione - poi in gran parte azzerata a inizio 2017 - la reazione non è stata così brusca. Tra aprile e maggio, però,
è esplosa la guerra commerciale Usa-Cina e le prospettive sono rapidamente cambiate: l’effetto è stato dirompente.
Una Fed in imbarazzo
Dal momento che M1 anticipa di un anno circa l’andamento del pil nominale (crescita più inflazione), qualche motivo di preoccupazione,
al di là delle esasperazioni della Casa Bianca, potrebbe allora esserci.
Cosa può fare la Fed in una situazione come questa? Poco. La liquidità è ancora piuttosto ampia, mentre la frenata sembra
essere legata a fattori ’esogeni’ che la politica monetaria non può aggredire. Per correggere l’effetto dei dazi - che incidono
sui prezzi relativi e distorcono la struttura dell’economia - l’unico sistema è azzerare i dazi. La Fed è quindi chiamata
a risolvere un problema che non può risolvere.
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