Le ragioni per cui Sergio Marchionne investe un miliardo di dollari negli impianti industriali del Michigan e assegna duemila dollari in più ai dipendenti sono due. La prima ragione è industriale. La seconda è politica. E le due ragioni si mescolano in un ibrido di significativo impatto.
La Chrysler fallita aveva la dotazione di fabbriche peggiore fra le Big Three: l'obsolescenza tecno-industriale e i deficit organizzativi erano enormi. Sergio Marchionne ha prima rinnovato gli impianti e poi li ha riorganizzati tramite il World Class Manufacturing, il metodo di organizzazione delle fabbriche importato dall'Italia e attuato negli Stati Uniti da dirigenti italiani arrivati da Mirafiori e da Pomigliano d'Arco. Poi ha elaborato e attuato una strategia di saturazione degli impianti: produrre più macchine possibili, migliorarne la qualità, coinvolgere i lavoratori, fare girare al massimo le linee; una impostazione di “sviluppo” realizzata anche a scapito dei margini di guadagno sulla singola unità di prodotto. Dunque, il miliardo di dollari sullo stabilimento di Warren nasce da questa impostazione generale, che è stata confermata e rinforzata – diventando coerente con il quadro politico americano – nel momento in cui Donald Trump ha fatto saltare il tavolo della politica economica americana classica con l'America First, la linea di rottura basata sul ritorno “forzato” della manifattura negli Stati Uniti.
La seconda ragione è politica: tutta l'operazione Chrysler ha lo stigma del Partito Democratico. Senza Barack Obama alla Casa Bianca, Chrysler non sarebbe mai andata a una casa automobilistica italiana.
La Chrysler è andata alla Fiat anche perché le tecnologie di basso consumo dei motori di Torino apparivano coerenti con le impostazioni di politica economica e di politica ambientale dettate da Obama. Trump ha fatto saltare questo tavolo. E Marchionne si è subito giocato la carta delle fabbriche, già rinnovate e ancora più da migliorare, già rivitalizzate e consolidate ma ancora più da sviluppare e espandere. Anche in virtù della possibilità che il Nafta, l'area di libero scambio con Messico e Canada, si rompa, mettendo in crisi un meccanismo che – per tutta l'auto di Detroit – ha nei due Paesi due appendici di manifattura pura essenziali. In America, non c'è nulla di più politico dell'auto. E, dunque, appare ancora di più coerente con l'America di Trump la condivisione con i lavoratori dei benefici fiscali scaturiti dal taglio delle tasse. Un aumento dei redditi degli operai e degli impiegati del Michigan peraltro armonico anche con la filosofia della Chrysler – in toto americana – di un collegamento diretto fra salari e produttività: con benefici per i singoli che nascono non solo dai miglioramenti dal basso – a livello di stabilimento – dei risultati, ma che traggono origine anche dai miglioramenti dall'alto, a livello di conti economici e di posizione fiscale generale dell'azienda. È esattamente quello che sta capitando a FCA.
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