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Dossier Parte la voluntary disclosure

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    Dossier | N. 27 articoliIl rientro dei capitali

    Parte la voluntary disclosure

    Al secondo tentativo e a otto mesi dall'insabbiamento del decreto legge 4/14 sulla voluntary disclosure (governo Letta), il provvedimento sul rientro dei capitali e l'emersione del nero “domestico” è diventato legge.
    In meno di due settimane il Senato ha licenziato il testo votato il 16 ottobre scorso dalla Camera, con un rush finale che ha dimostrato quanto la maggioranza e il Governo tenessero a questo progetto. Tanto che, dopo il voto, il presidente del Consiglio, Matteo Renzi, ha twittato: «Approvato anche rientro dei capitali e autoriciclaggio. È proprio #lavoltabuona».

    Centodiciannove sì, 61 no, 12 astenuti hanno chiuso - tra polemiche mai sopite - il cammino di un provvedimento che ha visto respingere a passo marziale centinaia di emendamenti tra Camera e Senato. Testo bloccato, approvazione «tassativa» entro l'anno fiscale (che scade il 31 dicembre, appunto) anche e soprattutto per il gettito che il Mef attende dall'operazione. E così, alla fine, è stato.
    Al centro del contendere parlamentare - e dottrinale - non è tanto la regolarizzazione fiscale dei troppi miliardi in fuga (230, secondo le prudentissime stime di Banca d'Italia, di cui 200 in o passati dalla Svizzera), ma il nodo delle tasse da pagare, delle sanzioni, e del sottofondo di diritto penale che ha accompagnato l'ultima chance di ravvedimento.

    Il rientro dei capitali (che questa volta è anche emersione dei valori mai usciti dai valichi, per esempio le cassette di sicurezza) non è un condono, come hanno ripetuto in tanti ieri, a partire dal ministro Pier Carlo Padoan. Non lo è perché, a differenza dei tre scudi della decade scorsa, il candidato all'emersione deve presentarsi con nome, cognome, e con tutta la documentazione genuina degli investimenti esteri (e interni). Se mente, c'è un nuovo reato specifico (da 18 mesi a sei anni, più la revoca di tutti i benefici fiscali).

    Non è un condono perché le tasse si pagheranno tutte, laddove non sono prescritte: 5 anni indietro per i Paesi white list, 10 per i paradisi fiscali. Tasse che significano 43% di Irpef più 2% di tasse locali, in aggiunta a interessi di legge e sanzioni, queste davvero ridotte al minimo (generalmente il 3% sul capitale). Il principio guida, hanno ripetuto dal Mef in questi mesi, è equità: chi non ha pagato paghi, nella misura in cui lo hanno fatto gli altri.
    Questa soluzione ha scontentato chi ancora confonde l'operazione con i vecchi scudi (ancora ieri, nel dibattito in Aula, Nicola Morra, 5Stelle), e chi invece (Giacomo Caliendo, Pdl) parla di provvedimento da propaganda elettorale o, come Salvatore Sciascia (Pdl), invoca un regime di rientro a forfait (al 30%) come ha fatto la Germania.

    La legge da oggi c'è ma non risolve definitivamente il tema dell'autoriciclaggio. Il nuovo reato colpirà gli evasori fiscali, è chiaro, tranne quelli che aderiranno alla voluntary. Il problema è che la norma, per come è formulata e per quello che non dice, rischia di rimettere alle procure dalla finestra (reati societari) quello che è uscito dalla porta. Il ministro Orlando (Giustizia) dice che ci sarà tempo per rimediare, e sicuramente avrà ragione.

    Sullo sfondo internazionale però c'è una partita molto più grande già giocata e finita: dal 2018 scambio automatico globale delle informazioni fiscali. Chi non regolarizza oggi domani rischia di trovarsi sorprese molto più amare.

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