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Dossier Contenuti e responsabilità sui social network che cambiano

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    Dossier | N. 21 articoliImpresaSocial

    Contenuti e responsabilità sui social network che cambiano

    Pare che in Irlanda – lo riferisce il Guardian – i social network siano preoccupati dai risarcimenti chiesti in seguito ad un fenomeno chiamato porn revenge. Si tratterebbe di procedimenti intentati da ex fidanzate (o fidanzati) per la pubblicazione online di foto o filmati con esplicite scene di sesso. Queste immagini, inizialmente realizzate con il consenso dei protagonisti ma destinate a visioni private, una volta mutati i rapporti, vengono diffuse per ripicca sul web. Spesso a questo scopo vengono utilizzate pagine aperte dei più noti social media, che ormai sono diventate il veicolo più veloce per far circolare ampiamente una notizia, se ha un qualche appeal o anche tratti puramente morbosi.

    Se aldilà della Manica questi procedimenti sembrano essere una minaccia concreta per i gestori delle piattaforme digitali, nel nostro Paese come stanno le cose?

    Anzitutto, va precisato che pubblicare scatti o video a carattere sessuale di cui si ha legittimo possesso, senza il consenso dei protagonisti, è una condotta illecita. Implica infatti la commissione se non altro di due delitti: diffamazione e illecito trattamento di dati personali. Il primo consiste nella offesa alla reputazione, il secondo nella diffusione senza consenso di dati sensibili non solo con l’intento di causare un danno ma causandolo davvero. La persona offesa, se vuole, può chiedere non solo la punizione del colpevole, ma anche i danni materiali e morali subiti.

    Ma chi può essere ritenuto responsabile e, dunque, chiamato a risarcirne il danno?

    Certamente la persona che ha reso di pubblico dominio il materiale. Attenzione: con ogni probabilità non soltanto chi per primo lo ha divulgato in rete, ma anche chi lo ha “rilanciato”, contribuendo alla diffusione.

    È assai più difficile individuare una responsabilità in capo agli internet service provider (Isp) o a chi gestisce il social network. Su questo tema, fornisce qualche spunto il Dlgs 70/2003, che, in attuazione di una direttiva europea, ha disciplinato «alcuni aspetti giuridici dei servizi dell’informazione nel mercato interno, con particolare riferimento al commercio elettronico». Questa disciplina, ormai ritenuta - in assenza di altre più specifiche - il punto di riferimento in materia, esclude una responsabilità del sito che si limita a ospitare contenuti, a meno che il sito stesso non abbia una diretta conoscenza della illiceità o eviti di adempiere a un ordine di cancellazione proveniente dalla pubblica autorità.

    “Il vero problema sembra quello di capire se oggi chi ospita in rete contenuti generati da terzi non abbia davvero alcun controllo su tali contenuti”

     

    Pare certo comunque che non esiste una regola che imponga agli Isp di attivarsi autonomamente per ricercare ed eliminare immagini o testi illeciti. Di più: tanto la direttiva europea prima richiamata quanto la legislazione nazionale di recepimento escludono categoricamente un obbligo di monitoraggio ex ante a carico dell’Isp.

    Il che è perfettamente comprensibile: un obbligo in tal senso stravolgerebbe non solo la natura dei provider, di fatto equiparandoli a chi fa attività editoriale su carta, ma anche, consequenzialmente, il loro modello di business. Con due aggravanti: interferenza non proporzionale sulla libertà di iniziativa economica e rischio concreto che il social network di turno, per evitare di essere chiamato a risponderne poi, finisca per effettuare una operazione in sostanza censoria, con buona pace per la protezione della libertà di espressione degli utenti.

    Il vero problema sembra quello di capire se oggi chi ospita in rete contenuti generati da terzi non abbia davvero alcun controllo su tali contenuti. Non dimentichiamoci che le esenzioni di responsabilità cui prima si è fatto riferimento sono state in primo luogo pensate per provider assai meno tecnologicamente evoluti rispetto a quelli che oggi caratterizzano il mercato e, in secondo luogo, che esse non si applicano nel caso in cui gli stessi Isp esercitino un controllo effettivo sui contenuti ospitati.

    Nessun dubbio che i provider di oggi facciano “qualcosa in più” rispetto a quelli di sedici anni fa (che nell’era dei bit corrisponde a quasi un secolo). La domanda rilevante è se questo “qualcosa in più” sia tale e tanto da far cambiare loro mestiere e quindi regime di (ir)responsabilità.

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