Norme & Tributi

Limitare l’autotutela dà spazio all’inerzia…

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l’analisi

Con la sentenza 181/2017, la Corte costituzionale ha frettolosamente dichiarato infondata la questione di legittimità costituzionale sollevata dalla Commissione tributaria provinciale di Chieti con ordinanza del 1° luglio 2016.

Non è irragionevole che il diniego tacito di annullamento in autotutela, ad avviso della Corte costituzionale, non sia impugnabile; non viola alcun principio costituzionale il fatto che l’amministrazione finanziaria possa ignorare l’istanza del contribuente sulla base di valutazioni “largamente discrezionali”.

Ancora: la disciplina legislativa del potere di autotutela tributaria, nella parte in cui non prevede un obbligo dell’amministrazione di pronunciarsi sulle istanze di annullamento presentate dal contribuente, non lede la garanzia costituzionale del diritto al giudice.

Il giudice remittente sospettava che la disciplina dell’autotutela tributaria (articolo 2-quater, Dl 564/1994, convertito nella legge 656/1994), insieme

all’elencazione degli atti impugnabili di cui all’articolo 19 del Dlgs 546/92, fosse in contrasto con gli articoli 53, 23, 3, 24, 113 e 97 della Costituzione, non essendo espressamente prevista l’impugnabilità del rifiuto tacito dell’amministrazione finanziaria sull’istanza di autotutela proposta dal contribuente.

La sentenza della Corte non pare convincente: accanto ad ovvietà che non necessitavano di essere ripetute (è noto che l’autotutela non abbia funzione giustiziale), la sentenza 181 / 2017 confonde i nodi problematici sottesi e, prima ancora, la nozione istituzionale di posizione soggettiva passiva di «dovere» ben diversa dall’«obbligo», per arrivare alla soluzione della «non irragionevolezza» della disciplina.

Si apre, indubbiamente, un vulnus nella piena tutela del contribuente di fronte all’inerzia dell’amministrazione finanziaria.

L’impugnabilità innanzi al giudice tributario del diniego tacito di autotutela – diversamente da quanto ritenuto dalla Corte costituzionale – appare approdo

necessitato sul piano di una interpretazione adeguatrice della disciplina tributaria dell’autotutela, per consentire al giudice di valutare eventuali profili di illegittimità del rifiuto a provvedere sull’istanza del contribuente, che può prospettare, dal canto suo, un interesse di rilevanza generale alla rimozione dell’atto ai sensi dell’articolo 2-quater, Dl 564/1994 e dell’articolo 3, Dm 37/1997.

Come il contribuente non può contestare la fondatezza della pretesa tributaria, così il giudice tributario può sindacare solo il corretto esercizio del potere discrezionale dell’amministrazione finanziaria, espresso o tacito che sia.

La stessa norma attribuisce agli organi dell’amministrazione l’esercizio del potere di annullamento d’ufficio o di revoca degli atti illegittimi e infondati, anche in caso di loro non impugnabilità.

È corretto, perciò, radicare nei principi costituzionali, in primis nel principio di capacità contributiva, la doverosità dell’autotutela, ormai recepita dalla stessa amministrazione a fronte di atti palesemente illegittimi, sia pur definitivi.

L’interpretazione adeguatrice delle norme sull’autotutela non può che confermare la necessità dell’impugnabilità del diniego tacito di autotutela.

La ricorribilità giurisdizionale del silenzio rifiuto tacito o implicito non ha implicazioni diverse dalla ricorribilità del diniego espresso.

La pronuncia della Corte costituzionale rappresenta un eccesso del fine sul mezzo.

Affermare l’impugnabilità del diniego tacito, non significa affatto scardinare il sistema delle decadenze sulle quali si fonda il processo tributario. È questo il vero nodo problematico che sembra aver travolto, sul piano motivazionale, il ragionamento giuridico della Corte: certamente decorso il termine decadenziale per impugnare l’atto impositivo, lo spazio riservato all’autotutela è segnato dal legislatore.

Perciò né si può parlare di potere meramente discrezionale e di indifferenza dell’inerzia dell’amministrazione finanziaria (premiata, invece, dalla sentenza in commento), né il contribuente può pretendere, sotto le mentite spoglie di un’istanza di annullamento in autotutela, di riaprire i termini per ottenere il sindacato nel merito della fondatezza della pretesa tributaria portata da atti che non ha tempestivamente impugnato.

Ampliare indefinitamente tale spazio significherebbe negare la perentorietà dei termini per impugnare gli atti impositivi.

Rimane, infatti, precluso al contribuente il tentativo di ottenere, con lo strumento dell’autotutela, il riesame della fondatezza dell’atto impositivo definitivo, salvi i casi sussumibili nella palese illegittimità che il legislatore riporta alla doverosità dell’esercizio del potere di autotutela.

Se è vero che l’ufficio, anche di fronte ad un atto definitivo, può sentirsi in dovere di provvedere all’annullamento in autotutela di tale atto definitivo, appare censurabile, proprio sul piano della tenuta del sistema e della coerenza con i principi costituzionali, il diverso orientamento propugnato dalla Corte costituzionale secondo il quale, indifferentemente e senza alcun vincolo, l’amministrazione può ignorare l’istanza del contribuente senza che il contribuente possa impugnare tale silenzio.

La materia necessita di essere rimeditata perché il potere di autotutela non è un potere discrezionale assoluto e all’istanza del contribuente non può, e non deve, corrispondere l’inerzia incensurabile dell’amministrazione finanziaria.

Se quelli in commento sono gli approdi della Corte costituzionale è urgente che intervenga il legislatore.

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