Il puzzle del fisco 2018 si va lentamente componendo. Ancora non è possibile cogliere il disegno complessivo, ma tra legge di bilancio, decreto legge collegato ed emendamenti che già si annunciano numerosi, qualche segnale comincia a emergere.
Per prima cosa, va detto che dentro una manovra delicata e complessa, che dal punto di vista contabile parte da meno 15,7 miliardi di euro, ovvero le risorse necessarie per sterilizzare le clausole di salvaguardia e il conseguente aumento dell’Iva, si vede bene il tentativo di tenere fede alle tre priorità da tempo indicate dal governo – rilancio degli investimenti pubblici e privati; politiche a favore dei giovani; potenziamento degli strumenti di lotta alla povertà – e di farlo sforzandosi di reperire i mezzi finanziari senza aumentare le tasse. Almeno non in modo plateale, come il dietrofront sulla “patrimonialina” da applicare alle polizze vita in qualche modo suggerisce.
Tutti d’accordo, non potrebbe essere altrimenti, sulla conferma degli incentivi per gli investimenti di Industria 4.0, con la speranza che non siano posti inutili vincoli sul credito di imposta che sarà concesso per le spese di formazione e addestramento del personale e che i fondi a ciò destinati non siano distolti da altre agevolazioni pure finalizzate a sostenere l’innovazione delle imprese.
Tutti d’accordo sugli sgravi per le assunzioni dei giovani e per le altre misure espansive della manovra. Bene anche le conferme di alcuni bonus (risparmio energetico, ristrutturazioni eccetera), meno bene la possibile rinuncia ad altri incentivi (quelli per i mobili, ad esempio) soprattutto perché non sempre si vede una logica in grado di spiegare i motivi di queste scelte, se non ragioni meramente di cassa.
E, infatti, il pacchetto fiscale della manovra finisce per farsi notare non solo, come accennato, per le misure pro-crescita ma anche perché assicura oltre 5 miliardi di euro di nuove entrate. Che, come sostiene il governo, saranno pure il frutto di interventi tesi ad accrescere la «fedeltà fiscale, riducendo i margini di evasione ed elusione, in particolare migliorando l’efficienza dei meccanismi di riscossione dell’Iva».
Ma che ancora una volta finiranno per colpire in modo generalizzato l’intera platea dei contribuenti, onesti compresi.
Di certo, questi interventi sono destinati a pesare in termini di adempimenti e relativi costi, dallo split payment alla stretta sulle compensazioni, che ora con la legge di bilancio vengono ulteriormente rafforzati.
Peraltro, ancora non è stata completamente assorbita la “tragedia dello spesometro” e già arriva una norma che inevitabilmente finirà per diventare un’ulteriore macchia sulla “reputazione” di un fisco senz’anima e sulla sua capacità di intrattenere un rapporto sano ed equilibrato con i cittadini-contribuenti.
Perché rinviare di un anno (nei fatti in modo retroattivo) l’entrata in vigore dell’Iri - l’imposta sul reddito imprenditoriale, introdotta con la manovra per il 2017, modalità opzionale per tassare in modo separato e con aliquota al 24% il reddito d’impresa di imprenditori individuali e società di persone in contabilità ordinaria – significa per l’ennesima volta stravolgere qualsiasi idea di rispetto dei diritti dei contribuenti. Significa smentire qualsiasi basilare principio di certezza del diritto e negare ogni possibilità di gestione moderna delle attività economiche; significa mortificare ogni tentativo di pianificazione, fiscale ma non solo.
Un anno in più di attesa, si dirà, non è poi un dramma: ma qualcuno sarà ora disposto a credere che la nuova imposta potrà davvero debuttare? Per di più, già in altre due occasioni, Finanziaria 2001 e Finanziaria 2008, un’imposta analoga è rimasta lettera morta e non è mai stata applicata. Un destino che si ripete. Difficile immaginare che durante l’iter parlamentare della manovra si possa rimediare, visto che lo slittamento dell’Iri al 2019 produce per lo Stato circa 2 miliardi di euro di risparmi nel 2018.
Sempre con un occhio alle risorse da trovare è già arrivata la riapertura/riedizione della rottamazione delle cartelle, prevista dal collegato Dl 148. Diciamo la verità: tra cartelle, liti fiscali (anche qui si va verso una riapertura della definizione) e voluntary disclosure (che a sorpresa potrebbe tornare in pista), stiamo attraversando il terzo anno consecutivo di sanatorie striscianti. Che portano soldi necessari, certo, ma che in generale non sono un segnale bellissimo, soprattutto se reiterato. In verità, se rottamazione deve essere, si dovrebbe almeno fare uno sforzo rivolto a chi ha percorsi di dilazione già aperti (soggetti in difficoltà che, come sappiamo, nei fatti non riescono ad accedere a questa procedura più conveniente), prevedendo ad esempio una rateazione più ampia in cambio di una piccola maggiorazione.
Poi le semplificazioni e l’immancabile spesometro. Qui si dovranno attendere le correzioni del governo e delle Camere (incrociando le dita per una navigazione parlamentare che non si annuncia proprio agevole). Vedremo che cosa arriverà. Di certo ci sarà il nuovo calendario degli adempimenti. Ma non scordiamo che sulle semplificazioni ci sono aspettative molto alte. Una misura su tutte: quella per ripristinare un termine congruo per l’esercizio del diritto alla detrazione Iva che, con le modifiche apportate dal decreto 50 della scorsa estate, ora si esaurisce quattro mesi dopo l’anno in cui l’imposta diviene esigibile, con il rischio concreto di perdere la detrazione per le operazioni riferite agli ultimi mesi dell’anno.
Per lo spesometro si guarda alle possibili modifiche, con invio dei dati a cadenza annuale come chiedono le categorie o semestrale come preferirebbe l’amministrazione, con l’accorpamento delle mini fatture e l’azzeramento delle sanzioni per l’anno in corso. L’auspicio è che il sistema delle comunicazioni Iva possa finalmente trovare un minimo di stabilità, dopo le modifiche a getto continuo degli ultimi anni. Auspicio che però dovrà fare i conti con l’arrivo, dal 2019, della fatturazione elettronica, da tutti invocata ma con tali e tanti distinguo da consigliare un’attenta valutazione di costi e benefici e, soprattutto, un confronto vero e aperto con gli operatori. Non sembra superfluo ricordare che se sullo spesometro si fossero ascoltate per tempo le categorie e le associazioni non avremmo assistito al delirio delle scorse settimane.
© Riproduzione riservata