Il legislatore fiscale che pone mano a una riforma deve avere come obiettivo quello di contemperare le esigenze dello Stato e degli organi dell’amministrazione finanziaria e quelle di tutela dei contribuenti. In effetti, se da una parte la politica fiscale del nostro Paese è diretta a soddisfare esigenze di gettito o di contrasto all’evasione, dall’altra deve tutelare il contribuente creando disposizioni proporzionali agli obiettivi, gestibili con livelli di adeguamento limitati, informando i destinatari con congruo anticipo rispetto al momento di attuazione. In effetti, questi principi vengono il più delle volte sacrificati per ragioni di urgenza o di successione repentina delle disposizioni nel tempo.
Questa situazione ha caratterizzato le ultime riforme Iva che, essendo relative a misure generalizzate, hanno il difetto di creare problemi di ampia portata che non si riferiscono a limitati settori ma coinvolgono tutti i contribuenti anche i più piccoli. Un esempio, che in questi giorni stimola critiche da più parti, riguarda la drastica riduzione dei termini di esercizio della detrazione Iva che da due anni e quattro mesi è stata ridotta a quattro mesi. La ratio potrebbe essere condivisibile perché in molti casi la difficoltà di rispettarla dipende più da problemi operativi che da insormontabili difficoltà oggettive. Ciononostante la critica che deve essere mossa è nelle modalità con cui è stata originariamente proposta (nella prima versione, la legge aveva reso non più esercitabile con le modalità ordinarie la detrazione Iva per le operazioni la cui esigibilità si era verificata nel 2015 ovvero nel 2016) ed è stata successivamente accompagnata (sarebbe stato necessario un maggior tempo per la sua entrata in vigore con un adeguato sforzo interpretativo di aiuto alle imprese). Al contrario, è poco comprensibile l’urgenza di far entrare in vigore una riforma ad aprile del 2017 con valenza dal 1° gennaio dello stesso anno, considerando che la riforma impone adeguamenti informatici che, con riferimento alle grandi imprese o a particolari settori (ad esempio la grande distribuzione), necessitano di tempi e investimenti adeguati.
Altra riforma Iva che ha calpestato e continua a calpestare i diritti dei contribuenti è quella sulle note di variazione in caso di mancato pagamento da parte del cessionario/committente (articolo 26 del Dpr 633/72). In questo caso, il problema è relativo al fatto che il creditore per poter riottenere l’Iva versata allo Stato e non restituitagli dal cliente è tenuto ad aspettare l’esaurimento di lunghe procedure concorsuali che lasciano nella completa incertezza il momento in cui riottenere un proprio sacrosanto diritto. Su questa riforma (da tutti voluta) si è assistito a un valzer incomprensibile. Il legislatore aveva preso atto del problema ed era intervenuto con la legge di Stabilità 2016 consentendo il recupero dell’Iva non più al momento di chiusura delle predette procedure, ma al momento di apertura. Poi aveva congelato la misura di un anno rendendola operativa dal 1° gennaio del 2017. Alla fine del 2016 con un colpo di penna l’ha cancellata lasciando inalterata la situazione preesistente. Su questa riforma è stata anche proposta una infrazione alla Commissione Ue e sul punto si pronuncerà giovedì prossimo (23 novembre ) la Corte di giustizia. Sicuramente l’esito della sentenza farà discutere, ma si spera che rilanci il tema imponendo allo Stato una riflessione con una ripresa della specifica riforma.
© Riproduzione riservata