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Selvaggia Lucarelli condannata per diffamazione via social a Barbara D’Urso

(Ansa)
(Ansa)

Selvaggia Lucarelli è «colpevole del reato di diffamazioneaggravata ai danni di Barbara D'Urso», per un post pubblicato nel 2014 su alcuni social network (twitter e Instagram) in cui la blogger - commentando un'intervista resa dalla d'Urso a Daria Bignardi - aveva affermato: «L'applauso del pubblico delle Invasioni alla d'Urso ricordava più o meno quello alla bara di Priebke». Lo ha stabilito ieri il tribunale di Milano, sezione X penale, in composizione monocratica. Lo fa sapere in una nota il legale della D'Urso ripresa dall’Ansa.

“La frase incriminata: “L'applauso del pubblico delle Invasioni alla d'Urso ricordava più o meno quello alla bara di Priebke'””

 

«Il tweet, ultimo di una serie di commenti al vetriolo e sovente di pessimo gusto - afferma il legale della conduttrice di Canale 5 - aveva indotto Barbara d'Urso a sporgere una querela. Barbara d'Urso aveva evidenziato come il commento della Lucarelli fosse gratuitamente offensivo, basato su fatti falsi e manifestamente incontinente, travalicando i limiti della libera manifestazione del pensiero per ledere direttamente l'altrui reputazione».

«Il tribunale ha condannato Selvaggia Lucarelli a 700 euro di multa, oltre al risarcimento del danno e alla rifusione delle spese legali sostenute dalla persona offesa. Il giudice - rileva ancora il legale di Barbara D'Urso - ha dunque colto la falsità del fatto posto alla base dell'affermazione offensiva (”l'applauso di cui
trattasi era obiettivamente caloroso”) e la conseguente gratuità e strumentalità dell'attacco della Lucarelli».

Perché si parla di diffamazione aggravata
Facebook è un mezzo di diffusione ma non è stampa, sicché alla diffamazione ivi commessa è applicabile l'aggravante della diffusione attraverso un qualsiasi mezzo di pubblicità (articolo 595 comma 3 Codice penale), ma non quella dell’attribuzione di un fatto determinato con il mezzo della stampa (articolo 13 legge 47 del 1948). Questo è quanto stabilito dalla quinta sezione penale della Cassazione, con sentenza n. 4873 depositata il 1° febbraio 2017.

Attenzione anche alla diffusione dei dati personali
La diffamazione compiuta attraverso internet è più grave della pubblicazione di dati personali in grado di integrare il reato di cui all’art 167 del codice privacy.
E quando le fattispecie concorrono perchè accanto al messaggio diffamatorio vengano inseriti anche i dati personali del diffamato, si deve applicare il reato più grave che , nella fattispecie, la Corte di Cassazione ritiene essere quello di diffamazione.

È quanto ha stabilito la Suprema Corte di Cassazione in una sentenza di fine settembre di quest'anno. La vicenda riguardava l'impugnazione effettuata da un imputato della condanna operata da una Corte d'appello, alla pena di mesi sette di reclusione per i reati di cui agli articoli 595 codice penale e 167 DIgs 196/2003.

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