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Fisco, fallito il tentativo di stanare gli evasori con le statistiche

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REDDITOMETRO E STUDI DI SETTORE

Fisco, fallito il tentativo di stanare gli evasori con le statistiche

(Imagoeconomica)
(Imagoeconomica)

Se c’è stato un tempo in un cui il Fisco aveva l’ambizione di scovare l’evasione di cittadini e imprese per via statistica, quel periodo è ormai archiviato. Come dimostra la sorte del redditometro e degli studi di settore. Strumenti che fino a qualche anno fa erano considerati la killer application contro il sommerso e che oggi sono declassati – nella migliore delle ipotesi – ad arnesi complementari. Nel 2016 (ultimo anno per il quale sono disponibili i dati) gli accertamenti da redditometro sono stati 2.812, per circa 2 milioni di euro di esiti finanziari, secondo la definizione della Corte dei conti. Una miseria rispetto ai 19 miliardi che le Entrate hanno rubricato sotto la voce «lotta all’evasione» sempre nel 2016.

Prima ancora di essere formalmente abolito, insomma, il redditometro è finito in disuso. Per una ragione molto semplice: i funzionari del Fisco hanno ritenuto che altri strumenti abbiano un rapporto costi-benefici più efficace. Perché prevedono procedure più snelle (il redditometro richiede sempre il confronto con il contribuente). O perché offrono argomenti più solidi di quelli derivanti dalla modalità di accertamento sintetico. D’altra parte il redditometro sconta una sorta di peccato originale “metodologico”: partendo da dati noti (alcune spese del contribuente) arriva a ricostruire un dato ignoto (il suo vero reddito, superiore a quello dichiarato); ma per eseguire questa operazione utilizza dati statistici sui consumi medi che, in quanto tali, possono essere smentiti. Certo, il Fisco ha sempre detto che avrebbe usato il redditometro nei casi di scostamenti eclatanti tra reddito presunto e dichiarato, ma i numeri dimostrano che alla fine lo si è usato davvero poco, e c’è chi ha osservato che forse dietro tanta prudenza c’era la volontà di privilegiare altri strumenti, più in linea con la politica collaborativa del “fisco amico”.

Gli studi di settore, oltre che uno strumento di accertamento, sono innanzitutto un adempimento che grava su 3,3 milioni di imprese e professionisti. E lo saranno ancora per quest’anno, in attesa che venga completata per tutte le categorie la messa a punto dei nuovi Indici sintetici di affidabilità fiscale (Isa). Se tutto andrà secondo i piani, dal prossimo 1° gennaio il passaggio sarà completo e l’archiviazione degli studi completa.

Intanto, però, l’esperienza quotidiana insegna che l’utilizzo degli studi di settore è profondamente mutato rispetto agli anni del debutto, quando costituivano un vero e proprio spauracchio per tanti contribuenti.

Basta pensare che ormai il 28,2% dei contribuenti soggetti agli studi non si adegua ai ricavi presunti dal software Gerico (si veda Il Sole 24 Ore del 24 novembre 2017). Ed è più facile che i funzionari delle Entrate, approfondendo le ragioni del divario, contestino singole voci di spesa (ad esempio costi non inerenti) o procedano comunque con altre forme di accertamento. A cui va poi aggiunto l’utilizzo degli studi come innesco per le lettere del Fisco con cui si sollecita l’adempimento spontaneo (compliance).

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