Per qualcuno è diventata un’attività semi-professionale. Per altri è solo un modo di alleggerire il carico di imposte e spese legate alla casa, magari in attesa della vendita. Di certo, quello degli affitti brevi è uno dei trend più forti del momento sul mercato immobiliare. Tra opportunità di guadagno (a volte sovrastimate), proteste degli albergatori e interventi normativi da parte di Parlamento, Regioni e Comuni.
Il boom di Airbnb
Dietro il boom c’è internet, che facilita l’incontro tra domanda e offerta in un modo impensabile fino a pochi anni fa, unito all’aumento di abitazioni sfitte, inutilizzate o in vendita. Il portale Airbnb, ad esempio, ha visto crescere gli annunci pubblicati dagli 8.126 del 2011 ai 354mila dell’anno scorso; ancora più importante il trend di crescita rispetto al 2016: +53,9% su base annua.
Un fenomeno sottostimato
Non ci sono dati ufficiali, ma a fronte dei 2,8 milioni di case affittate con contratti “lunghi”, è probabile che una parte non trascurabile dei 5,4 milioni di case che le Finanze classificano come «a disposizione» siano locate per brevi periodi nell’anno. Del resto, secondo l’Istat nel periodo 2010-16 gli arrivi nelle strutture alberghiere sono cresciuti del 13,7%, mentre in quelle extra-alberghiere l’aumento è stato del 37,3 per cento. E anche se in quest’ultima categoria sono compresi tra l’altro case vacanze, bed and breakfast e campeggi, la tendenza è evidente.
«C’è sicuramente interesse per gli affitti brevi, ma bisogna distinguere le diverse situazioni: in alcune zone non c’è richiesta da parte dei conduttori, in altre si punta su immobili urbani, in altre ancora sono stati valorizzati con questa formula immobili di pregio che rischiavano di restare inutilizzati», commenta Giorgio Spaziani Testa, presidente di Confedilizia.
Il rebus dei rendimenti
Spesso i proprietari sono in difficoltà nel capire quanto può rendere questa attività. «Gli incontri nelle nostre sedi territoriali sono molto partecipati – prosegue Spaziani Testa –. Arrivare a una stima del rendimento non è facile: si neutralizza il rischio di morosità dell’inquilino, ma bisogna ponderare con attenzione i periodi in cui l’immobile resta sfitto».
L’esempio
La simulazione riportata qui sopra, per quanto indicativa, offre un ordine di grandezza. Un alloggio di medie dimensioni in zona semicentrale a Milano, con un tasso di occupazione del 50% delle notti, può rendere – al netto di imposte spese – dai 6.400 ai 10.500 euro all’anno (a seconda di quanto il proprietario decida di usare il fai-da-te o di ricaricare alcune spese all’inquilino). Per avere un paragone con gli affitti “lunghi”, lo stesso appartamento può rendere 8.700 euro, considerando anche l’incidenza della morosità.
L’altra faccia della medaglia
Attenzione, però: il report 2016 di Airbnb suggerisce cautela nel prevedere facili guadagni. Il tipico host italiano ha affittato la stanza o la casa per 23 giorni nell’anno e ha ricavato 2.200 euro. In generale, le occasioni più interessanti riguardano le zone turistiche, le città d’arte e i grandi centri.
La gestione delle locazioni brevi impone di fare i conti anche con gli adempimenti burocratici. «L’altra faccia della medaglia – osserva il presidente di Confedilizia – sono le incertezze derivanti dalle normative regionali, soprattutto per chi viene incasellato dalla Regione, attraverso norme palesemente in contrasto con la Costituzione, come operatore professionale senza esserlo davvero».
Tecnologia più veloce della legge
Anche su questo fronte – come in altri campi della sharing economy – la tecnologia corre più veloce della legge, che cerca di recuperare il terreno perduto dettando regole spesso contestate. Come l’obbligo di inserire negli annunci il Cir, codice identificativo, previsto dalla Lombardia. Nelle intenzioni della Regione, dovrebbe consentire tra l’altro ai Comuni di fare controlli, anche sul fronte Imu e Tasi, ma è duramente contestato da portali e proprietari. Secondo gli uffici regionali, a Milano, al momento le case vacanze iscritte sarebbero 2mila a fronte di 18-20mila operanti sul mercato.
A livello nazionale, invece, è intervenuta la manovra di primavera del 2017, introducendo l’obbligo di ritenuta per gli intermediari, non applicata però da Airbnb, che ha fatto ricorso al Tar.
Le proteste degli albergatori
In questo scenario si inseriscono anche le proteste degli albergatori, secondo i quali spesso la gestione di affitti brevi è un’attività economica a tutti gli effetti, che va disciplinata come tale. Così, mentre Airbnb sottolinea che in molti casi l’affitto ha aiutato i locatori a «integrare il reddito» o «mantenere la proprietà», il direttore generale di Federalberghi, Alessandro Nucara, replica che «il 58% degli annunci è pubblicato da persone che gestiscono più alloggi». Secondo gli albergatori si tratta anche di contrastare il rischio di evasione fiscale, che giudicano elevato, oltre a tutelare gli ospiti: «Mancano standard minimi di qualità. Servono nuove regole, ma anche più controlli perché è in gioco la sicurezza».
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