E pensare che il Tutor lo hanno inventato Autostrade e Polizia stradale. Sì, proprio la società che ora è stata condannata per averne copiato il brevetto e la forza di polizia che per ora, a causa di questa condanna, deve rinunciare a uno dei strumenti che predilige. Ma, quando gestori autostradali e poliziotti immaginavano un nuovo sistema che controllasse anche la velocità media, erano altri tempi. Così nessuno sviluppò l’idea per arrivare a brevettarla. Cosa che invece fece per conto suo Romolo Donnini, il piccolo imprenditore toscano che ebbe la stessa idea più o meno nello stesso periodo (metà anni Novanta) e la brevettò nel 1999 a nome della sua azienda, la Craft.
Tutto iniziò a margine di uno dei consueti incontri annuali tra la Polizia stradale e l’Aiscat (l’associazione dei gestori delle autostrade italiane). Era chiaro a tutti che in corsia di sorpasso, appena il traffico lo permetteva, si viaggiava sui 170 all’ora. Come se vent’anni prima nessuno avesse introdotto (inizialmente in funzione anti-crisi petrolifera) il limite di velocità di 140 km/h, inutilmente abbassato a 110 nella “crociata” estiva del 1988 del ministro Enrico Ferri e portato nell’autunno successivo a 130 solo per i giorni feriali, per poi stabilizzarsi un anno dopo sugli attuali 130.
Si sapeva benissimo che i pochi autovelox all’epoca disponibili potevano fare ben poco: salvo che la strada fosse ben sgombra, avevano difficoltà a misurare la velocità di tutti i mezzi in transito. Quando ci riuscivano, poi, esaurivano anche in pochi minuti i rullini da 36 scatti (poi portati a 800) di cui erano dotate le loro macchine fotografiche. Problemi poi superati in buona parte dalla tecnologia. Ma restava quello più importante, che pesa anche oggi: il fatto che chi riusciva ad avvistare in tempo un autovelox prima inchiodando (col rischio di sbandare o farsi tamponare) per poi tornare subito a correre. Poliziotti e gestori pensavano che l’unica soluzione fosse misurare la velocità media su tratte estese. Come fa il Tutor, appunto.
Ma all’epoca c’era molta approssimazione. Tanto che i primi autovelox fissi, comparsi all’improvviso nella primavera 1988 sull’Autosole dentro una dozzina di minibunker di cemento, erano una variante del misuratore classico dell’epoca (l’Autovelox 103). Che però, nella fretta, non era mai stata approvata (in sostanza, omologata). La cosa divenne pubblica solo dieci anni dopo, in circostanze rocambolesche. E chi ancora poteva andò dal giudice di pace a farsi annullare le multe.
Romolo Donnini, invece, fu più attento. E anche più preciso nel dettagliare la sua idea, cosa che gli consentì di ottenere il brevetto. Tanto che non c’è certezza che l’idea di Autostrade e Polizia fosse davvero in grado di risolvere i problemi tecnici che si ponevano, come per esempio la necessità di individuare automaticamente ciascun veicolo con un’immagine della sua parte posteriore: l’arretratezza della tecnologia dell’epoca richiedeva parecchi sforzi inventivi. Solo che, quando Donnini contattò la Polizia stradale di Firenze per illustrare il suo brevetto, non ottenne tanto ascolto.
Nel frattempo, la società Autostrade si avviava ad essere privatizzata, passando dal gruppo Iri ai Benetton e assumendo il nome Autostrade per l’Italia (Aspi). Cambiavano anche i criteri per fissare i pedaggi: a fine 1996 il Cipe approvò il debutto del metodo price cap, in cui gli aumenti tariffari sono legati a parametri tra cui la qualità del servizio. In campo autostradale, questa si tradusse in un complicato indice che tiene conto dell’andamento del numero di incidenti e della qualità dell’asfalto. Così per la prima volta la sicurezza poteva fruttare qualcosa al gestore.
Questo meccanismo in sé virtuoso può spiegare il cambio di mentalità repentino sulla velocità: fino a pochi anni prima non si poteva nemmeno ammettere che i tempi di percorrenza reali indicati dai pannelli a messaggio variabile erano ricavati monitorando i passaggi degli utenti Telepass. Si temeva che la gente si sentisse spiata e smettesse di utilizzare il Telepass o addirittura di prendere l’autostrada. Invece, la comparsa dell’indice di qualità aprì la strada al Tutor. Che infatti Aspi decise di sviluppare in proprio, con grande stupore di Donnini.
Il sistema fu approvato dal ministero delle Infrastrutture a fine 2004, debuttò nel 2005 e si estese molto nei due anni successivi, grazie anche al lavoro di sviluppo software di un altro imprenditore di Latina che da allora lamenta di non essere stato pagato da Aspi. Di fronte alle rimostranze di Donnini, Aspi cercò di registrare un suo brevetto, per poi rinunciarvi. Iniziò il contenzioso che lo scorso aprile ha portato alla condanna di Aspi e allo spegnimento del Tutor.
In ogni caso, dal 2007 l’indice di incidentalità, già in miglioramento prima del Tutor grazie anche alla maggior sicurezza dei veicoli, fece progressi più decisi.
Dal 2008 la formula applicata ad Aspi è cambiata: dentro gli investimenti (proprio in quegli anni la società ne aveva concordati di nuovi con lo Stato), fuori la qualità. Ma non del tutto: se l’indice di qualità tornasse a livelli inferiori al 2006, scatterebbe una penalizzazione. E il 2006 è proprio l’ultimo anno prima che l’effetto Tutor si avvertisse più nettamente in termini di calo degli incidenti. Dunque, quando si sente dire che il gestore non trae alcun beneficio tariffario dall’uso del Tutor, non è proprio così. Senza contare la possibilità di vendere il sistema ad altri gestori, anche all’estero.
È anche per questo che Aspi ha fatto approvare dal ministero un altro sistema, il SicvePm, destinato a sostituire il Tutor. Sempre che si dissipino i dubbi sulla possibilità che anche questo sistema violi il brevetto di Donnini: al ministero delle Infrastrutture pende una richiesta di revoca dell’approvazione proprio per questo motivo. Nei prossimi mesi si saprà se e come gli uffici ministeriali (che negli ultimi tempi hanno perso dirigenti importanti) risponderanno.
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