La modifica più significativa apportata al decreto dalla legge di conversione riguarda il regime transitorio, ed è stata concepita per dare più tempo alle aziende di adeguarsi alle nuove regole. In realtà la situazione risulta ora ulteriormente complicata. Il decreto, nel testo originario, disponeva l’applicabilità delle nuove regole «ai contratti di lavoro a tempo determinato stipulati successivamente all’entrata in vigore del presente decreto, nonchè ai rinnovi e alle proroghe dei contratti in corso». La legge di conversione ha modificato la norma, rendendo applicabili le nuove disposizioni, oltre che ai nuovi contratti, «ai rinnovi e alle proroghe contrattuali successivi al 31 ottobre 2018».
Premesso che la nuova normativa non si applica alla Pa, i regimi possibili per i datori di lavoro privati, sembrano almeno quattro. I contratti stipulati (o rinnovati o prorogati) prima dell’entrata in vigore del decreto (14 luglio 2018) possono avere il loro corso, anche se difformi dalle nuove regole. Tuttavia, in caso di rinnovo o proroga, assumerebbe decisivo rilievo la data in cui tali atti intervengano. Un rinnovo o una proroga effettuati dopo il 14 luglio, ma prima dell’entrata in vigore della legge di conversione, sarebbero soggetti (in assenza di disposizioni specifiche della legge stessa) alle disposizioni originarie del decreto. Quindi al limite massimo di 24 mesi, al divieto di una quinta proroga e all’obbligo di causale per le proroghe oltre i 12 mesi e i rinnovi.
Diversa la situazione se proroga o rinnovo intervengono dopo l’entrata in vigore della legge di conversione (il giorno successivo alla sua pubblicazione sulla GU). In questo caso, infatti, si avrebbe una sorta di “moratoria” sino al 31 ottobre 2018, che consentirebbe di rinnovare o prorogare, prima di tale data, secondo le regole di prima del decreto (36 mesi, 5 proroghe, niente causale). Nessun dubbio che ai contratti stipulati per la prima volta dopo il 14 luglio 2018 (data di entrata in vigore del Dl) si applichi interamente la nuova disciplina. Tuttavia, anche in questo caso, importanti differenze potrebbero prodursi in caso di proroga o rinnovo, a seconda della loro data. La nuova norma non fa più espresso riferimento ai contratti in corso all’entrata in vigore del decreto. Con la conseguenza che un contratto, pur “nato” sotto il nuovo regime del decreto, e ad esso inizialmente soggetto, potrebbe essere prorogato o rinnovato (sino al 31 ottobre 2018) secondo le vecchie regole.
Questa lettura della norma non è certo unanime, nonostante la lettera della legge sembri autorizzarla. È già stato sostenuto che si tratterebbe di una conseguenza paradossale, per un contratto sorto nel vigore delle nuove disposizioni. Non mancherà probabilmente un contenzioso sul punto.
La “moratoria” introdotta dalle legge di conversione solleva poi un interrogativo. È possibile prorogare liberamente (per la vecchia disciplina), con atto negoziale che intervenga prima del 31 ottobre 2018, un contratto la cui scadenza si colloca dopo tale data? In altre parole, in caso di proroga anticipata rispetto alla scadenza, vale la data dell’atto negoziale o quella in cui la proroga produrrà l’effetto di prolungare il contratto? In base ai principi generali, ciò che rileva dovrebbe essere la data dell’atto negoziale (la proroga), che le parti ben potrebbero pattuire prima rispetto alla scadenza. Tuttavia, anche su questo punto potrebbero esserci opinioni (e quindi in futuro decisioni giudiziali) difformi.
Quel che è certo è che la moratoria non si applica all’aumento di 0,50 punti percentuali, in occasione di ciascun rinnovo del contratto a tempo determinato, del contributo addizionale dell’1,4%, introdotto dalle legge Fornero. L’aumento del contributo opera già dalla data di entrata in vigore del decreto.
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