«Ti arricchisci sul lavoro della gente onesta? Continui a fottere le persone? Farò il possibile per evitare che derubiate
altra gente». Ecco alcune delle frasi estrapolate dalle e-mail che nel 2011 un professionista inviò via e-mail al titolare
di un'azienda da cui aspettava dei pagamenti: ma erano «offese giustificate», come hanno scritto i giudici che si sono occupati
del caso, perché prodotte da “uno stato di esasperazione”. E l'uomo, G.F., 35 anni, è stato assolto dall'accusa di diffamazione
“perché il fatto non costituisce reato”.
L'insolita vicenda giudiziaria si è sviluppata a Torino per poi chiudersi a Roma, dove la Cassazione ha avallato la sentenza di primo grado di un giudice di pace e la successiva del tribunale.
I magistrati subalpini, secondo la Suprema Corte, hanno applicato correttamente la cosiddetta “esimente della provocazione”,
secondo cui non è punibile chi diffama qualcun altro mentre si trova “in uno stato d'ira determinato da un fatto ingiusto”.
G.F., secondo le carte processuali, aveva tutte le ragioni di essere “esasperato”. Dopo la fine della collaborazione con l'azienda aveva chiesto il pagamento delle fatture: al primo messaggio ottenne delle rassicurazioni, ma al secondo, 20 giorno dopo, non ebbe risposta. Nel frattempo su internet erano spuntati “commenti negativi” sulla ditta “descritta in più occasioni come soggetto inadempiente”.
Come hanno sottolineato gli Ermellini, è vero che la terza e-mail di G.F. aveva
“contenuto ingiurioso”, ma era una reazione suscitata, da un lato, dal “senso di tradimento” e, dall'altro, da una effettiva
“violazione delle buone regole di pratica commerciale tra contraenti”, cosa che integra il “fatto ingiusto” così come previsto
dal codice.
Il comportamento tenuto dall'imprenditore non gli ha giovato: i giudici hanno fatto presente che è rimasto “silente” quando G.F. gli ha chiesto il pagamento, ma ha risposto subito, annunciano la querela, quando ha ricevuto l'e-mail con le offese.
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