L’Italia digitale assomiglia a quella analogica. Ad allargare la distanza fra le promesse di una Pa che dialoga sempre online e un rapporto quotidiano con gli uffici pubblici che si sviluppa ancora tra carte, raccomandate e code agli sportelli sono i vizi classici del Paese: norme inattuate, fondi non spesi, resistenze passive e una distanza fra i territori che rende impossibile raggiungere standard più o meno omogenei da Milano a Caltanissetta, ma anche dalla pianura alla montagna. Risultato: l’Europa matrigna con cui stiamo combattendo sulla manovra avrebbe messo a disposizione dell’Italia 1,65 miliardi nel 2014-2020 per digitalizzare la Pa, ma finora le nostre amministrazioni sono riuscite a spendere 50 milioni scarsi (il 3% del totale) e a programmarne poco più di 150.
Con l’indice «Desi» (Digital Economy and Society Index), la stessa commissione europea misura il fiato corto dell’innovazione italiana in termini di attuazione dell’agenda digitale e di erogazione di servizi online: siamo 25esimi su 28, riusciamo a metterci alle spalle solo Bulgaria, Grecia e Romania ma non sappiamo tenere il passo di Polonia, Ungheria, Cipro o Portogallo, per non parlare di Danimarca, Svezia e Finlandia che occupano il podio o di Germania e Francia che dovrebbero essere i nostri concorrenti ma ci superano in fatto di utilizzo di Internet, connettività, integrazione e servizi digitali. Come capita sempre nei confronti internazionali, il risultato è figlio di un’Italia divisa in due: dalla Provincia di Trento che guida il gruppo (con un “indice di digitalizzazione” comunque inferiore alla media europea)a quasi tutto il CentroNord (compreso il Lazio) che si comporta un po’ meglio degli standard nazionali, e quasi tutto il CentroSud (ma c’è anche la Val D’Aosta) fa peggio, giù fino alla Calabria che si colloca dietro alla Romania cenerentola d’Europa.
A mettere in fila numeri e prospettive della digitalizzazione è il diluvio di grafici, analisi e tabelle contenute nella nuova edizione dell’Osservatorio agenda digitale del Politecnico di Milano, che sarà presentato giovedì prossimo. Nel Rapporto, costruito dalla School of Management con un ampio panel di soggetti istituzionali e privati, si traducono in cifre le difficoltà dell’innovazione pubblica italiana, ma anche i suoi passi avanti. Perché qualcosa sta cambiando. «Siamo all’anno zero», ha commentato sconsolata la ministra della Pa Giulia Bongiorno nominando alla guida dell’Agenzia digitale Teresa Alvaro (laurea in matematica, carriera sviluppata soprattutto negli uffici Ict dell’agenzia delle Dogane) al posto che fu di Diego Piacentini. Ma «non bisogna ripartire daccapo – ragiona Alessandro Perego, responsabile scientifico dell’Osservatorio – perché anni di miopia e mancati investimenti si sentono, ma invece di cambiare i modelli costruiti con fatica bisogna accelerare sull’attuazione dei progetti attivati».
Il problema chiave è nell’ultimo miglio, quello più importante, che collega gli sforzi più o meno convulsi nella digitalizzazione dei servizi pubblici con i cittadini che dovrebbero utilizzarli. Anche qui i numeri aiutano. Lo Spid ha distribuito 3 milioni di «identità digitali» agli italiani per utilizzare 4.200 servizi in 4mila pubbliche amministrazioni. Ma questi uffici virtuali rimangono praticamente deserti, con l’eccezione degli insegnanti che per utilizzare il bonus formazione da 500 euro devono passare di lì o i neo 18enni che devono fare lo stesso percorso per ottenere il bonus cultura.
Sei milioni di italiani, uno su dieci, ha in tasca la Carta d’identità elettronica, arrivata dopo mille peripezie fra il caos delle anagrafi e il blocco dei sistemi. Circa 14mila dei 22mila enti pubblici italiani ha attivato il sistema PagoPa per pagare multe, tasse o bolli. Ma i cittadini spesso se ne tengono lontani per la complessità nelle procedure o per semplice disabitudine o diffidenza nel far girare soldi online. Perché il problema è anche lì. Solo il 68% degli italiani usa Internet tutti i giorni, sotto la media europea, e un po’ di fortuna in più si incontra nei servizi digitali rivolti alle platee professionali: non c’è commercialista che non gestisca i cassetti fiscali, e non c’è (quasi) medico che non utilizzi il fascicolo sanitario elettronico nelle 12 Regioni in cui è operativo.
Ma per arrivare a dama bisognerebbe abbandonare l’abitudine italiana al paradosso, che invece prolifera. Il penultimo arriva con l’obbligo degli appalti telematici: appena entrato in vigore, è stato “interpretato” permettendo di presentare le vecchie offerte cartacee, a patto che nella busta ci sia anche una chiavetta con gli stessi dati in formato elettronico. E l’ultimo arriva dalle bozze del decreto semplificazioni, che obbliga le amministrazioni renitenti a iscriversi all’elenco degli indirizzi Pec tenuto dal ministero della Giustizia per le comunicazioni e le notifiche degli atti giudiziari. L’elenco esiste dal 2012, l’obbligo è in vigore dal 2014. E la nuova norma spiega che l’obbligo è obbligatorio.
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