Che cosa resta dello scandalo dei “semafori truccati” di cui tanto si era parlato una decina di anni fa? Praticamente nulla. Nel senso che molte sentenze, anche della Cassazione, hanno stabilito che gli unici veri trucchi riguardavano - e solo qualche volta - le modalità con cui i Comuni hanno scelto i fornitori degli apparecchi e dei servizi connessi. Per il resto, nessuna violazione della legge. Al limite, solo casi di utilizzo poco trasparente. Certo, c’è stato anche chi ha presentato ricorso e ha vinto. Ma sono solo eccezioni.
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Lo conferma anche l’ultima pronuncia della serie, l’ordinanza n. 567/2019, depositata l’11 gennaio dalla Sesta sezione civile della Cassazione. I giudici hanno dato torto a una signora che aveva già perso in entrambi i gradi del giudizio di merito. L’interessata aveva eccepito soprattutto che il giallo durava troppo poco e che l’insieme semaforo-rilevatore potesse avere anomalie di funzionamento, ma senza fornire in modo formalmente corretto elementi certi e precisi. Tanto che alla Polizia locale è bastato cronometrare il tempo del giallo e fornire i certificati di approvazione del rilevatore e i verbali di collaudo iniziale e verifica annuale per convincere i giudici di merito che la sanzione era fondata.
Il dato giuridicamente più rilevante della pronuncia appare la conferma che non è necessario un tempo di giallo superiore ai tre-quattro secondi (a seconda della larghezza dell’incrocio e della velocità consentita) individuati dal ministero delle Infrastrutture con la «risoluzione» n. 67906 del 2007, sulla base di uno studio che il Cnr aveva condotto già nel 1992 ed era stato contestato da alcuni tecnici (che giungevano a ritenere necessari anche otto secondi).
In tutta la vicenda dei “semafori truccati”, non risulta che si sia mai riusciti a dimostrare che il tempo del giallo sia stato impostato su un valore inferiore dopo che presso un semaforo era stato montato un rilevatore automatico delle infrazioni. Tanto che anche le indagini penali che erano state aperte su questo punto specifico non hanno portato a condanne.
Non è mai stato accertato incontrovertibilmente nemmeno che i rilevatori avessero difetti o anomalie di funzionamento tali da inficiarne l’attendibilità in generale: praticamente tutte le multe risultate infondate, dovute a casi particolari o a malfunzionamenti occasionali, si sarebbero potute evitare con un adeguato (e doveroso) controllo dei fotogrammi che ritraevano la presunta infrazione.
In ogni caso, l’onere probatorio su qualsiasi difetto o anomalia resta del trasgressore, come la Cassazione (sentenze 11574 e 26026 del 2017) ha stabilito su tutti i ricorsi contro il Comune di Salussola, il cui impianto aveva innescato un contenzioso seriale.
Si è “prosciugato” anche un altro filone di ricorsi: quello aperto da chi non è passato col rosso, ma è stato multato perché occupava una corsia sbagliata (dedicata a una direzione diversa da quella seguita dal trasgressore) sulla quale in quell’istante c’era il rosso. Anche in casi del genere la Cassazione ha stabilito che l’infrazione sussiste lo stesso (sentenze 9276/2018 e 8412/2016).
Alla fine, le ombre più gravi sui Comuni sono rimaste per altri aspetti della vicenda: dalla scelta degli incroci su cui piazzare gli apparecchi (a volte lasciata alla società privata che li ha installati incassando parte dei proventi delle multe e non un canone fisso) a quella di punire anche chi si ferma ma dopo la striscia di arresto (infrazione molto meno grave, perseguita in automatico sfruttando capziosamente una piega della legge 120/2010) e a quella di apparecchi che non documentano l’infrazione con filmati (il ministero delle Infrastrutture ammette anche rilevatori che scattano due fotogrammi per infrazione, ma così può essere difficile dimostrare - per esempio - di essere passati col rosso per lasciare strada libera a un’ambulanza).
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