Le Regioni che hanno chiesto l’autonomia differenziata vogliono avere l’ultima parola su grandi temi come l’istruzione, l’ambiente o il governo del territorio. Ma per tradurre in pratica la loro voglia di decidere da sole devono discutere con il ministero dell’Istruzione anche le competenze sugli organi collegiali della scuola o sull’educazione degli adulti, con il ministero dell’Ambiente le regole sulle singole norme tecniche per la gestione dei rifiuti pericolosi, con quello delle Infrastrutture i poteri sulle strade regionali o sulle concessioni ferroviarie.
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Negli elenchi più lunghi, quelli presentati da Lombardia e Veneto che puntano a tutte le 23 competenze oggi in coabitazione con lo Stato mentre l’Emilia Romagna si ferma a 15, i dossier al centro delle richieste riguardano più di 200 funzioni amministrative. In un panorama variegato che va dalla promozione dei beni culturali al «rispetto delle fasce cimiteriali».
Si spiega anche con la complessità degli infiniti dossier al centro delle trattative il calendario lungo preso dai lavori sull’autonomia regionale. I tempi però agitano la politica, dopo che la prima scadenza del 15 gennaio, indicata con uno slancio di ottimismo dal leader della Lega Salvini appena prima di Natale, è passata senza che si riuscisse a chiudere il cantiere tecnico. Ma non bisogna fermarsi alla superficie del confronto difficile fra un Movimento 5 Stelle freddo sull’autonomia del Nord e una Lega entusiasta. Pochi giorni fa è stato lo stesso Di Maio, in una riunione a porte chiuse, a dare un via libera che ha chiuso la fase della resistenza passiva dei ministeri M5S come Infrastrutture o Salute. Ma negli ultimi giorni è cresciuta la tensione anche fra le stanze del Carroccio “romano”, impegnate a tenere gli equilibri di coalizione sul decretone di «quota 100», e i governatori del Nord. Perché Fontana in Lombardia, e ancor di più Zaia in Veneto, hanno il problema di tenere sotto controllo la pressione di una base che scalpita sul tema più identitario per la Lega nordista. Anche per questo, in un modo o nell’altro a metà febbraio dovrà arrivare al consiglio dei ministri la proposta ufficiale dell’intesa con le tre Regioni.
Nei desideri dei tifosi a Nord, come nei timori dei contrari a Sud, l’autonomia è prima di tutto una questione di soldi. Ma bisogna stare attenti. Le somme in gioco sono potenzialmente enormi. Oggi lo Stato spende in Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna 71,5 miliardi all’anno per garantire scuola, ordine pubblico, infrastrutture, politiche per il lavoro, ricerca e così via. Un calcolo puntuale sui valori dell’autonomia sarà possibile solo una volta definite quali delle 200 funzioni abbondanti citate all’inizio passeranno a ogni regione, con quali modalità e con quanto personale. Ma una stima di massima mostra che i portafogli più consistenti riguardano soprattutto istruzione e ambiente, e che in totale le principali competenze al centro del negoziato valgono fino a 21,5 miliardi: 10,5 in Lombardia, che con i suoi 10 milioni di abitanti è il gigante in campo, 6 nel Veneto, che come Milano ha chiesto il pacchetto completo delle 23 competenze trasferibili, e il resto all’Emilia Romagna. Sarà soprattutto la scuola a decidere il conto finale. Perché da sola vale oltre 11 dei 21,5 miliardi “trasferibili”.
Ma che cosa succederebbe davvero a questi soldi? Almeno nei primi cinque anni, secondo il progetto, la geografia effettiva delle risorse non cambierebbe di una virgola, perché il trasferimento avverrebbe in base al «costo storico». In pratica: se oggi lo stato spende 100 euro in Veneto per una determinata funzione, il passaggio delle competenze a Venezia porterebbe in dote i 100 euro oggi pagati con fondi centrali. Nelle convinzioni degli autonomisti, però, Milano, Venezia o Bologna saprebbero gestire in modo più efficiente di Roma le funzioni: i risparmi resterebbero nei bilanci regionali permettendo riduzioni di tasse o servizi aggiuntivi a “costo zero”.
Questo scenario è certamente possibile per alcuni temi ma improbabile in altri. Proprio nella scuola, cioè nel cuore della questione finanziaria, la prospettiva è problematica. Gli stipendi di insegnanti e personale tecnico assorbono da soli l’89,9% della spesa. E l’autonomia non può certo portare a contratti di lavoro differenziati o alla riduzione degli organici tagliando il rapporto docenti/studenti. Anche se scaldano meno il dibattito, allora, le novità più interessanti sul piano fiscale potrebbero arrivare dai maggiori spazi di libertà sui tributi regionali, sugli incentivi (fiscali e non) a imprese e settori produttivi, sulla gestione del territorio o la promozione di ambiente e beni culturali. Con lo spostamento di competenze, più che di risorse.
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Superati i cinque anni di rodaggio, si passerebbe alla seconda fase regolata dai «costi standard» per i «livelli essenziali delle prestazioni», in cui la distribuzione delle risorse garantirebbe solo il “prezzo giusto” per i servizi efficienti. Qui però si entra nella nebbia. I parametri, di cui la politica favoleggia da anni, sono tutti da costruire. E devono tener conto delle caratteristiche demografiche, geografiche e sociali di ogni territorio perché per esempio i trasporti in una pianura urbanizzata hanno un costo pro capite più leggero rispetto a quelli in un’area di montagna, o il welfare dove ci sono più anziani è diverso dalle zone a più alta presenza di giovani. Più di un segnale lascia supporre che l’attuazione di questo sistema sposterebbe risorse da Sud a Nord perché colpirebbe le inefficienze strutturali. Ma sono prospettive tutte da definire.
Ora invece è il tempo della politica, che deve portare entro tre settimane alla definizione delle intese anche per evitare nuovi scossoni all’equilibrio fragile fra Lega e M5S. Anche se la firma a Palazzo Chigi sarebbe solo il primo passo di un percorso che poi passa dall’approvazione delle leggi su Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna a maggioranza assoluta dei componenti di Camera e Senato. E a un’infinità di decreti attuativi che promette di impegnare a lungo Stato e regioni.
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