La revoca e il rifiuto del riconoscimento dello status di rifugiato (anche se per motivi di sicurezza dello stesso Stato ospitante) non producono l’effetto di privare una persona, che abbia
fondato timore di essere perseguitata nel suo paese di origine, né dello stesso status di rifugiato né dei diritti che la
Convenzione di Ginevra ricollega a tale status. Quindi non può essere respinto nel Paese d’origine se qui rischia trattamenti
disumani o degradanti. Questa, in estrema sintesi, la conclusione cui è giunta la Corte di Giustizia Ue nella sentenza nelle
cause riunite C-391/16, C-77/17 e C-78/17 .
La sentenza è stata emessa a seguito della vicenda di un cittadino ivoriano e un cittadino congolese nonché una persona di origini cecene, titolari o richiedenti dello status di rifugiato, che si sono visti, rispettivamente, revocare o negare lo status sulla base delle disposizioni della direttiva sui rifugiati che consentono l’adozione di misure del genere nei confronti delle persone che rappresentano una minaccia per la sicurezza o, essendo state condannate per un reato particolarmente grave, per la comunità dello Stato membro ospitante.
I cittadini extracomunitari hanno fatto ricorso alle varie istanze nazionali ma i giudici locali si sono rivolti alla Corte di Giustizia perché sottolineano che, benché la Convenzione di Ginevra consenta, per i suddetti motivi, l’espulsione e il respingimento di un cittadino straniero o di un apolide, essa tuttavia non prevede la perdita dello status di rifugiato.
La Corte ha osservato che, benché la direttiva stabilisca un sistema di protezione dei rifugiati specifico dell’UE, essa è fondata nondimeno sulla Convenzione di Ginevra. Quindi, che il cittadino di un paese extra-UE o un apolide abbia un fondato timore di essere perseguitato nel suo paese di origine o di residenza, questa persona dev’essere qualificata come rifugiato ai sensi della direttiva e della Convenzione di Ginevra e ciò indipendentemente dal fatto che lo status di rifugiato ai sensi della direttiva le sia stato formalmente riconosciuto. L’atto di riconoscimento ha natura meramente ricognitiva e non costitutiva di tale qualità.
Di conseguenza,prosegue la Corte, il rifugiato dispone del complesso dei diritti e dei benefici previsti dalla direttiva per questo tipo di protezione internazionale, di cui fanno parte, nel contempo, diritti equivalenti a quelli contenuti nella Convenzione di Ginevra e tutele giuridiche ancora maggiori, derivanti direttamente dalla direttiva, che non hanno equivalenti nella convenzione. Del resto, continua la Corte Ue, i motivi di revoca e di diniego previsti dalla direttiva corrispondono ai motivi che la Convenzione di Ginevra riconosce tali da giustificare il respingimento di un rifugiato.
A questo punto scatta una sorta di cortocircuito normativo che blocca il respingimento: se, dice la Corte, effettivamente esistano i motivi di revoca o diniego e quindi, in base alla Convenzione di Ginevra, si può privare il rifugiato del beneficio del principio del non respingimento verso un paese dove la sua vita o la sua libertà possano essere minacciate, la direttiva dev’essere però interpretata e applicata nel rispetto dei diritti garantiti dalla Carta, i quali escludono la possibilità di un respingimento verso un Paese del genere. Infatti, specifica la Corte, la Carta vieta, in termini categorici, la tortura nonché le pene e i trattamenti inumani o degradanti, a prescindere dal comportamento dell’interessato, e l’allontanamento verso uno Stato dove esista un rischio serio che una persona sia sottoposta a trattamenti di tal genere. Quindi, anche la Convenzione di Ginevra autorizza il respingimento al Paese d’origine, la Carta, di fatto, lo impedisce se laggiù si rischiano torture o trattamenti disumani.
Il diritto dell’Unione, insomma, riconosce ai rifugiati interessati una protezione internazionale più ampia di quella assicurata
dalla convenzione di Ginevra.
Inoltre, chi ha lo status di rifugiato deve assolutamente disporre dei diritti sanciti dalla Convenzione di Ginevra, ai quali
la direttiva fa espresso riferimento nel contesto della revoca e del diniego del riconoscimento dello status di rifugiato,
nonché dei diritti previsti da tale convenzione il cui godimento esige non una residenza regolare, bensì la semplice presenza
fisica del rifugiato nel territorio dello Stato ospitante.
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