Editoriale pubblicato sul Sole 24 Ore di martedì 24 luglio
Stiamo tutti aspettando che nei prossimi dieci giorni avvenga qualcosa di facilmente prevedibile e ci prepariamo a viverli con l'angoscia contagiosa di chi teme il peggio. La prova di mercato diretta, più rilevante, per i nostri titoli di Stato è prevista lunedì 30 luglio ma avvertiamo l'urto di un attacco senza precedenti dei mercati a Madrid e a Roma che ha portato i tassi dei Bonos spagnoli (7,49%) ai livelli di quelli italiani del novembre scorso e ha fatto impennare lo spread BTp-Bund fino a 529 punti con un tasso nettamente al di sopra del 6%.
La situazione è sotto gli occhi di tutti, impone a chi ha la responsabilità delle istituzioni europee di intervenire prima (non dopo) un'eventuale rottura dell'euro per evitare di aggiungere il costo del panico ai già elevatissimi costi che economie, come quella italiana, stanno pagando sull'altare della fragilità politica europea. Noi i compiti a casa li abbiamo fatti, altri ancora ci aspettano, ma è chiaro che oggi paghiamo tutto il conto della debolezza della costruzione europea.
C'è una questione che riguarda gli Stati e una questione che riguarda le monete. Quando le due questioni si intrecciano pericolosamente, colmare il vuoto decisionale è obbligatorio. Chi prima interviene meglio fa perché sono in gioco il lavoro e il risparmio di milioni di cittadini europei. Dovendo fare i conti con un'Europa lenta e divisa e con troppi Stati che continuano a nicchiare prigionieri di grandi e piccoli calcoli elettorali, mentre Spagna e Italia pagano (molto) più del dovuto per collocare i loro titoli sovrani nella generale (colpevole/miope) indifferenza, c'è una via di uscita possibile anche nel breve termine. La Banca centrale europea deve fare la sua parte e deve farla subito. Bisogna cambiare radicalmente la logica e fare tesoro della lezione appresa nel 2010 quando si intervenne in misura insufficiente di fronte alla prima emergenza greca. Non si tratta di ripetere annunci di acquisti limitati di titoli di Stato, ma molto più semplicemente di dire con chiarezza ai mercati che si interverrà esattamente per quanto serve.
Se si troveranno la forza e il coraggio per farlo si spenderà meno e si salverà l'euro. Viceversa nessuno (dico nessuno) avrà di che gioire perché prima o poi anche i cosiddetti Paesi di serie A del Vecchio Continente faranno i conti con le macerie generate dalla loro miopia, la crisi globale si accentuerà così come le disuguaglianze.
Facile a dirlo, non a farlo. Si obietta: la Banca centrale europea non può attuare questo tipo di interventi, lo vieta la legge. La risposta è secca: non è così. A legittimarli sono precise ragioni di stabilità da tutelare all'interno dell'eurozona. La Bce opera, è chiamata ad operare, perché bisogna evitare i rischi terribili della deflazione legati al cataclisma dell'euro, occorre impedire che tutto si avvolga in una spirale recessiva e in un aggravarsi (non più recuperabile) delle posizioni debitorie riportando i tassi dei titoli pubblici spagnoli e italiani a un livello congruo.
A nostro avviso, le leggi vanno lette e interpretate nelle condizioni e nei momenti in cui si è chiamati a decidere. Nessuno potrà mai imputare a Mario Draghi e al Consiglio della Bce di essere intervenuti per scongiurare il rischio più grave e avere fatto in modo che, per una volta, i mercati ci perdano e non ci guadagnino. Anche la Bundesbank dovrà farsene una ragione. Guai se si volesse fare pesare a chi guida la Bce, in questi frangenti, la sua italianità. Il credito personale di Mario Draghi e le esigenze (ineludibili) del momento impongono la responsabilità di decidere e garantiscono che si eserciti tale responsabilità libera da ogni tipo di condizionamento.