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La Traviata alla Scala: convincono gli interpreti, non la regia

(Ap/LaPresse)(Ap/LaPresse)

Addio alle Violette bambine, sottili, sognanti e fragili. E soprattutto addio alle Violette malate di tisi. La Traviata di Diana Damrau è una signora di mezza età, in carne e disincantata. Malata di depressione e di consumo smodato di farmaci. Non crede all'amore di Alfredo, perché in quel caravanserraglio dei suoi abituali ospiti, una mascherata di parrucconi, in abiti trash di estrema bizzarria (no, il pubblico delle prime Scala è elegante, non assomiglia a loro) un ragazzo per bene, che le dichiari non tanto un qualsiasi sentimento, non può che arrivare come una nota stonata.

Molto radicale, molto diversa da qualsiasi altra precedente - a Milano, ma anche fuori - La Traviata di Dimitri Tcherniakov ha uno spessore forte. Però non convince. Proprio per questa artificiosità continuamente ricercata, insistita in mille dettagli caricaturali, sovrapposta a una drammaturgia e a una perfezione di libretto, che in Verdi sono scolpite nel cristallo. Straordinario invece il profilo musicale, con i tre protagonisti, Damrau, Piotr Beczala e Zeljco Lucic, che cantano con una bravura e una facilità, che fanno gustare ogni passaggio, persino tutti i ritornelli di tutte le cabalette e le aperture di tutti i tagli di tradizione. E tradizionalissimo, meravigliosamente ottocentesca è la direzione di Daniele Gatti. Sorpresa: proprio per questo suona moderna.

Per forza si deve subito commentare la regia. Perché certe provocazioni non passano inosservate. Alfredo che tira la pasta col mattarello, forse preparando una pizza, mentre deliba "Dei miei bollenti spiriti", fa sorridere (o sbottare) il pubblico, persino quello non abituato all'opera. Secondo le didascalie dovrebbe essere al rientro da una battuta di caccia. E anche questo potrebbe sembrare un decoro superfluo. Se non che, al rientro da una battuta di caccia era anche il Conte, nelle Nozze di Figaro. E chiaramente qui Verdi strizza l'occhio a Mozart. Perdere la connessione, è una perdita di rimandi culturali. Tcherniakov azzera: Alfredo rientra col domestico (che resterà poi sempre onnipresente in scena, anche nel duetto tra Germont e Violetta, che deve restare doverosamente a due, e basta) e sono palesemente di ritorno dalla spesa al supermercato, con un enorme scatolone di provviste. Dissacrazione? No. Una inutilità. Che forse fa ridere altrove, non qui. Certe minuzie, in forma di sberleffo, non aggiungono nulla.

Invece, quanto è profondo e studiato dall'interno il confronto tra Violetta e papà Germont: lì sì alla ricerca del vero, di una autenticità di sentimenti, in crescendo. Per una volta, riesce addirittura ad essere sopportabile la figura di questo padre retrivo, superficiale, che nelle solite "Traviate" viene subito voglia di alzarsi, e rientrare alla fine delle sue tirate su "padri e suore" da affrettarsi a consolare.

Anche Gatti, dalle rabbie incandescenti del secondo atto, trova una misura espressiva più autentica: al primo, in attacco, sembra un po' ingessato, quasi intenzionalmente inespressivo. Forse perché la serata si è aperta carica di intenzioni extra-musicali, con la dedica di un minuto di silenzio alla memoria di Nelson Mandela, e con una sala singolarmente più sobria del solito. E con tanta voglia di applausi. Gli stacchi dei tempi non sono tanto lenti, quanto freddi: sotto tutti i punti di vista, questa festa all'alba, in casa di Violetta (dove si abolisce il tavolo tradizionale e si beve solo, stravaccati su sedie mal disposte) è una intenzionale mascherata. Trionfa la maniera.

Il fantoccio di quel passato sarà una bambola, identica a Violetta, col fiore rosso tra i capelli, che troneggia sulla credenza, nella cucina del secondo atto. La Damrau è trasformata, soprattutto nei gesti, naturali, morbidi, spontanei. E non c'è oggi un soprano che possa competere con la sua Traviata. La canta in maniera regale, evolvendo nella voce il personaggio. Tutto quello che non capiamo dalla regia (sempre più confusa, nel voler dimostrare che lei non è malata nel corpo ma nella mente) lo dice il canto di lei. Straordinaria tecnicamente, regina mozartiana, ora regina di Verdi. E straordinario accanto a lei è Gatti, in crescendo. Con un finale luminescente, mai sentito così. Che trionfa, finalmente alla Scala. Selva di buu alla regia.
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La Traviata di Giuseppe Verdi; direttore Daniele Gatti, regia di Dmitri Tcherniakov; Milano , Teatro alla Scala, fino al 3 gennaio

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