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Siria, così muore una nazione

06 giugno 2014

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Notizie Medio Oriente e AfricaTra le rovine di Bab Touma mentre la Siria è chiamata al voto per le presidenziali

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Tra le rovine di Bab Touma mentre la Siria è chiamata al voto per le presidenziali

(Epa)(Epa)

DAMASCO - A Bab Touma, nel cuore di Damasco, quartiere cristiano di 20mila anime, nei manifesti elettorali la foto di Bashar Assad è stata messa accanto a quella del turbante nero del barbuto Seyed Nasrallah, il leader sciita libanese degli Hezbollah, i liberatori della roccaforte cristiana di Maaloula. Questa è una guerra civile dalle molte contraddizioni che in Occidente hanno analizzato con schemi rigidi, stereotipati, che fotografano una realtà assai diversa da quella sul campo. Queste elezioni presidenziali sono sicuramente ben poco affidabili, forse inaccettabili, ma non così farsesche come le definisce il segretario generale della Nato: la tragedia della morte di una nazione, con 160 mila vittime e milioni di profughi, esige qualche cosa di più di un aggettivo più o meno azzeccato.

«Rispettiamo Nasrallah perché è un leader islamico che fa quello che dice», puntualizza Thabet, miliziano cristiano che imbraccia un kalashnikov dotato di cannocchiale e mostra con orgoglio una croce tatuata sul braccio. Mentre percorriamo Bab Touma, tra chiese e rovine romane, lungo la Via Recta, in una mezza giornata piovono almeno 40 colpi di mortaio. L'atmosfera di tensione ricorda quella che si respirava nelle consultazioni elettorali di Baghdad, tra autobombe e attentatori suicidi. Eppure quelle elezioni furono accettate da tutti i non sunniti come regolari: ma le urne non hanno mai pacificato l'Iraq, così come accadrà adesso pure in Siria.

«Ecco - indica Tabeth - quella è la linea del fuoco a un chilometro da qui, dove a Jobar sono asserragliati i guerriglieri islamici». Checkpoint, sacchi di sabbia, barriere di cemento, l'esercito schierato con le brigate popolari mentre i Mig 21 volano a bassa quota tra i boati: così si è votato a Damasco, tra misure di sicurezza eccezionali ed esplosioni continue. Certo che queste non sono elezioni regolari: come mai potrebbero esserlo con metà del Paese fuori dal controllo del regime siriano e milioni di profughi all'estero? Ma dove ha potuto la gente è andata alle urne perché una buona parte dei siriani vede in Assad e nelle forze armate una via di salvezza alla disgregazione. E ha quindi accettato come un'innovazione che ci fossero per la prima volta due candidati alle presidenziali, Nouri e Al Hajjar, che ovviamente sono soltanto delle comparse, così pallide che hanno votato entrambi alla Sheraton Hotel, protetti da alti muri di cemento.

Verso sera un mortaio è caduto anche a un centinaio di metri dal nostro hotel, il Blue Tower, e le auto di soccorso si sono portati via cinque feriti tra i passanti, il loro sangue ieri macchiava ancora il marmo del marciapiede mentre il regime mandava un corteo di auto a inneggiare ad Assad: la vita di Damasco, dispiace dirlo al segretario della Nato Rasmussen, non è per nulla una farsa.

C'è da chiedersi piuttosto se sia stato corretto sostenere gruppi islamici radicali, sponsorizzati da sauditi e qatarini, legati ad al-Qaida, che sono completamente fuori dal controllo degli Stati Uniti e dell'Europa, illudendosi con qualche ipocrisia che l'opposizione ospitata negli hotel a cinque stelle di Istanbul contasse qualche cosa. Le stesse invettive del premier turco Recep Tayyep Erdogan contro Assad appaiono oggi impallidite dopo quanto è accaduto in Turchia da un anno a questa parte: con troppa fretta si è dato credito al governo di Ankara.

Ai siriani sono così rimaste ben poche alternative e la situazione è stata descritta come ineluttabile: una scelta tra un regime che dura da quasi mezzo secolo oppure il campo dei jihadisti, dove in alcune brigate dai nomi cangianti e fantasiosi prevalgono guerriglieri di ogni provenienza che stanno saccheggiando e terrorizzando il Paese. È stato facile per Assad raccogliere consensi in questi mesi, aiutato da qualche buon successo militare messo a segno con l'aiuto degli Hezbollah e dell'Iran. Però adesso non lamentiamoci troppo se i cristiani siriani contano più su Bashar e Nasrallah che non su Washington e l'Europa.

Come uscirne? Gli uomini con il fucile, di entrambi gli schieramenti, conoscono soltanto la legge delle armi, del taglieggiamento, del ricatto che tiene in ostaggio la popolazione, come abbiamo visto a Homs, Aleppo, Yarmouk. Possono talvolta decidere una mediazione, un accordo locale, il caso di Homs è un esempio: quanto basta per uscire da un accerchiamento militare e liberare un popolo strangolato dall'assedio e in progressiva agonia. «Come dice il Papa, evitiamo anche nel caso della Siria la globalizzazione dell'indifferenza: qui una soluzione militare è impossibile, serve una via di uscita politica e diplomatica», afferma il vescovo armeno cattolico Joseph Arnauti che indica il cortile della sua scuola elementare dove un mese fa un mortaio, all'entrata delle lezioni, ha colpito un gruppo di cinquanta bambini facendo un morto e dozzine di feriti.

Alla porta orientale di Bab Touma un gruppo di ragazzi con le magliette di Assad fa un gran rumore: è il comitato elettorale giovanile del partito Baath, creato negli anni Quaranta dal cristiano ortodosso Michel Aflaq e dal musulmano Salah Bitar. «Chi sono questi due? Non li conosco: il Baath è stato fondato da Assad», ride di gusto Shadi Hassan.
Sul dramma di questa nazione aleggia un terribile sospetto: che non si voglia nessun vincitore, che ci saranno soltanto dei perdenti, i siriani, e che la prossima generazione forse avrà un ricordo soltanto sbiadito della Siria.

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