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Questo articolo è stato pubblicato il 19 luglio 2014 alle ore 08:11.
L'ultima modifica è del 19 luglio 2014 alle ore 10:26.

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Di fronte a una sentenza così inaspettata, il più sorpreso di tutti ieri sembrava il diretto interessato. Del resto, il salto dai sette anni in primo grado alla trionfale assoluzione in appello è davvero sorprendente. Al punto da indurre Silvio Berlusconi a prodursi nel primo elogio pubblico della magistratura mai sentito dalla sua bocca. È il segno che i tempi sono cambiati, come peraltro è cambiato lo stesso Berlusconi nell'era del patto con Renzi. E ci sono ragioni tecniche ma anche politiche che spiegano la svolta giudiziaria.

Sul piano tecnico, la nuova strategia difensiva e l'autorevolezza di Franco Coppi, coadiuvato da Filippo Dinacci, hanno fatto la differenza. Torna in mente il consiglio che dalle colonne dell'Unità Giovanni Pellegrino una volta aveva dato al grande imputato: «Cavaliere, cambi gli avvocati». Ma c'è da domandarsi, è ovvio, quanto abbia pesato sulla decisione dei giudici il clima che si respira oggi nel Paese.

Gli atti della magistratura non dovrebbero mai risentirne, ma sappiamo come in pratica sia difficile essere del tutto asettici. Le fasi storiche entrano sempre (e malgrado tutto) nelle aule dei tribunali: in passato Berlusconi ne ha pagato lo scotto, oggi invece riscuote un dividendo di non poco conto. A condizione di non dimenticare tuttavia che il capo del centrodestra sta scontando la pena definitiva per la frode fiscale Mediaset e che almeno un altro procedimento è in corso (a Napoli, per la cosiddetta compravendita dei parlamentari). Sono aspetti che vanno ricordati per non cadere nell'errore di credere che l'assoluzione sul caso Ruby abbia cancellato per incanto l'intero contenzioso fra l'ex premier e il potere giudiziario. Non è così.

Peraltro, come si è detto, i tempi cambiano. Il Berlusconi di oggi non è quello di due anni fa. L'uomo che una volta alla settimana esce dalla casa di riposo di Cesano Boscone dove svolge il servizio sociale, è sopravvissuto al suo ciclo politico. Il famoso "patto con il Nazareno" non è un accordo fra uguali, da potenza a potenza. È piuttosto asimmetrico: da un lato il giovane leader emergente che ha preso il 41% alle europee, dall'altro l'anziano politico che non ha in mano carte di ricambio. Il patto, come chiunque può vedere, è un sentiero obbligato da cui non è consigliabile deragliare. E infatti Berlusconi aveva garantito in modo credibile che il suo sostegno a Renzi per le riforme non sarebbe venuto meno anche in caso di condanna.

La quale, certo, avrebbe reso l'accordo più fragile e più esposto alla guerriglia dei dissidenti e alle ambizioni di Alfano. L'assoluzione di Milano invece lo rinsalda. Ma d'ora in poi il ruolo politico di Berlusconi tenderà a essere in ogni caso subordinato a quello di Renzi. È l'attuale presidente del Consiglio a condurre il ballo. Berlusconi ne ricava in cambio una sorta di riconoscimento pubblico, tanto più che ora gli è stato restituito l'orgoglio. Ha preso forma un ombrello sotto il quale è più facile proteggersi e proteggere un'estesa rete di interessi. Troppo banale sostenere che il "patto del Nazareno" ha prodotto la sentenza assolutoria, ma è vero che il clima oggi era propizio come mai negli ultimi anni.
Berlusconi quindi continuerà a sostenere le riforme, come egli stesso ha ripetuto ieri sera. Magari qualcuno fra i suoi cercherà di rinforzare la riforma della giustizia, ma forse il capo si limiterà a qualche azione dimostrativa perché non ha voglia di irritare di nuovo i magistrati. Nonostante le apparenze, l'esito del processo Ruby potrebbe dunque accelerare l'uscita di scena di Berlusconi, anziché rallentarla.
Un'uscita di scena morbida, e mai del tutto definita in termini conclusivi, che gli consentirebbe, chissà, di tenere sotto controllo almeno un segmento del centrodestra. E di continuare a investire su Renzi, il figlio politico.
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