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Questo articolo è stato pubblicato il 22 luglio 2014 alle ore 06:36.
L'ultima modifica è del 23 luglio 2014 alle ore 18:10.

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Lo strano caso di Doctor Jekyll e Mister Hyde, applicato però alla nostra economia. La complessa transizione italiana spacca in due il nostro sistema manifatturiero. Una minoranza di imprese che si sviluppa. Una maggioranza che vivacchia, va male, va molto male.

La polarizzazione del nostro tessuto produttivo sta assumendo una dimensione quasi schizofrenica. Appunto, alla Doctor Jekyll e Mister Hyde. Ma quali sono le ragioni di questo sdoppiamento? E, in particolare, quali sono le opzioni strategiche perseguite dalle aziende che, nonostante il perpetuarsi di una recessione iniziata nel settembre del 2008 e il "fine pena mai" di un Sistema Paese strutturalmente ostile al fare impresa, riescono a non perire e a creare ricchezza?

A definire un differente codice genetico fra le imprese vincenti e quelle perdenti c'è prima di tutto la relazione con i mercati internazionali. E questa rappresenta l'ossatura della distinzione, il confine fra l'altare e la polvere, il minimo comun denominatore – per il capitalismo industriale italiano – di una ipotesi di futuro. L'internazionalizzazione, però, non è l'unica chiave di volta. Esiste anche la strategia di impresa – complementare e di affinamento dell'internazionalizzazione – fatta di marchi e di tecnologie formalizzate.
Andiamo con ordine.

Secondo l'Eurostat, le imprese italiane esportatrici sono poco meno di 90mila su un totale di 425mila: il 21 per cento; questo, a fronte di un 12,9% francese e di un 26,8% tedesco. Dunque, il paradigma interpretativo della polarizzazione funziona: le aziende che esportano sono una minoranza. Sono poco più del 20% e producono oltre l'80% del valore aggiunto e del fatturato complessivi della manifattura italiana.

Usando la distinzione dell'Istat fra "imprese esportatrici" e "imprese non esportatrici" – basata sulla dichiarazione degli stessi imprenditori sulla loro presenza o meno sui mercati esteri – l'ufficio studi di Nomisma ha provato a capire quanto l'appartenenza alla prima categoria avvantaggi rispetto al confinamento nella seconda.

L'intensità della distinzione è impressionante. Fissando a 1 l'indicatore riferito ai non esportatori, il valore aggiunto per addetto degli esportatori vale 2,21 (ben più del doppio in confronto ai non esportatori); questo si concreta in 24 punti di differenza fra i margini operativi lordi. L'esito finale sulla capacità di creare ricchezza e di generare redditività industriale è il risultato anche di atteggiamenti strategici diversi: basti pensare che, chi esporta, ha investimenti per addetto pari a 2,03 (il doppio rispetto a chi non lo fa); l'indicatore della retribuzione lorda per dipendente è esattamente lo stesso: 2,03. Dunque, sempre il doppio.

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