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Questo articolo è stato pubblicato il 22 luglio 2014 alle ore 06:36.
L'ultima modifica è del 23 luglio 2014 alle ore 18:10.

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La lettura di queste statistiche strutturali, che disegnano un profilo del paesaggio industriale denso di contraddizioni e di asperità, lascia abbastanza attoniti. Sembrano esistere, davvero, due Italie diverse. «I nostri calcoli – nota il capoeconomista di Nomisma, Sergio De Nardis – sono stati effettuati con i dati del 2011, gli ultimi disponibili in maniera omogenea. In realtà, conservano tutta la loro validità. Si tratta di un fenomeno strutturale».

Peraltro, la divaricazione del capitalismo industriale si concreta nella propensione ad allargare il guado fra chi va bene e chi va male. E, questo, si evidenzia bene in un primo indicatore – vitale, per quanto grossolano – della fisiologia di impresa: il fatturato. In una analisi compiuta dal servizio studi di Intesa Sanpaolo su un data base composto dai bilanci di quasi 55mila aziende, la voragine che si è creata con la recessione salta agli occhi. Rispetto allo standard delle altre aziende, il pacchetto di testa delle imprese italiane (composto dal 20% con i risultati migliori) ha ricavi superiori compresi fra il +31,5% (nel caso dei grandi gruppi) e il +49,9% (le micro imprese), con in mezzo una differenza del +41,1% (piccole aziende) e del 39% (medie).

La stessa propensione alla divaricazione si riflette nella pattuglia di coda (il 20% delle imprese con i risultati peggiori), che ha nel caso delle micro aziende un fatturato inferiore del 40,6%, in quello delle piccole del 40,2%, delle medie del 37% e delle grandi del 35,6 per cento.

La patologia del capitalismo industriale italiano non si esprime soltanto nella capacità finale delle singole imprese di agganciarsi alle catene internazionali del valore. Si manifesta anche nella abilità di munirsi di strumenti strategici validi indipendentemente dalla natura – interna o estera – dei mercati di sbocco. Un primo duopolio – dell'efficienza e dell'inefficienza – è rappresentato dall'esistenza o meno dei marchi. La questione dei marchi è complessa.

La scelta di lavorare su un proprio brand appare identitaria, prima che economica. E rappresenta una scommessa, in un mondo globalizzato in cui l'affermazione di quest'ultimo comporta investimenti e ha implicazioni organizzativo-logistiche in apparenza non coerenti con il paradigma della piccola impresa. «Tuttavia – osserva il responsabile del servizio industry and banking del servizio studi di Intesa Sanpaolo, Fabrizio Guelpa – se osserviamo l'indicatore del fatturato nelle imprese con marchio internazionale e in quelle senza marchio internazionale, appuriamo che le prime hanno avuto un calo del 2%, inferiore rispetto al -6% registrato dalle seconde». Imprese munite di marchio internazionale che, nel 2012, sono peraltro riuscite a ottenere un Ebitda del 7,2%, mezzo punto in più rispetto alle altre.

Un altro elemento strategico da non sottovalutare, nella costruzione della dicotomia fra Doctor Jekyll e Mister Hyde, è rappresentato dalla capacità brevettuale. Di solito si tende ad assegnare al profilo del capitalismo italiano il passaporto dell'innovazione informale: siamo piccoli, eppur ci muoviamo; e questo accade nonostante livelli di ricerca e sviluppo più bassi rispetto agli standard degli altri Paese europei, Francia e Germania in particolare: una formalizzazione minore della R&S dovuta alla non rilevabilità contabile non solo delle innovazioni di processo e di servizio (e questo è vero) e spiegabile pure con la non quantificabilità del genio italico del Made in Italy (e questo è, almeno in parte, consolatorio).

Eppure l'esistenza di un portafoglio brevetti – attività sconosciuta in tanta parte della nostra piccola e della media impresa – sembra conferire una maggiore solidità alle nostre imprese. Fra il 2008 e il 2012 chi ha brevetti ha perso un paio di punti di ricavi; chi non li possiede ha, invece, lasciato sul terreno sei punti. E, nel 2012, il primo ha comunque goduto di un margine industriale lordo del 7,7%, un punto in più del secondo.
Il dramma noir della crisi accentua la polarizzazione interna al nostro sistema industriale. Ma rappresenta anche una occasione per ripensare al nostro modello di sviluppo. Prima che Mister Hyde prenda il sopravvento su Doctor Jekyll.

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