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Questo articolo è stato pubblicato il 26 agosto 2014 alle ore 06:38.

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La Libia è con un piede dentro la somalizzazione mentre con l'altro sta già affondando. Che cosa sia diventata la Somalia dopo la caduta di Siad Barre nel '91 lo sanno tutti, l'emblema dell'anarchia e della destabilizzazione che ha pure inghiottito una fallimentare missione Onu. Ai Paesi arabi nordafricani riuniti ieri al Cairo l'ambasciatore libico Fuad Jibril ha chiesto l'avvio di una missione internazionale sotto l'egida delle Nazioni Unite: «Non siamo in grado di proteggere istituzioni, infrastrutture e campi petroliferi». E tanto meno la popolazione, dovremmo aggiungere, sia libica che straniera, preda di una nuova pirateria mediterranea che usa le coste come un'intoccabile Tortuga.
L'ambasciatore è come se avesse detto di rimediare a quanto è stato fatto con l'abbattimento di Gheddafi. Un paradosso ma non troppo se pensiamo all'Iraq e alla Siria. Perché di questo si tratta: la Libia è stata proiettata dagli eventi nello sgretolamento generale del Medio Oriente. Gli Stati arabi presenti al Cairo hanno lanciato il solito e usurato appello al dialogo escludendo un intervento: ma sono parole che mascherano una realtà ben diversa.
Tripoli non ha né un governo né un Parlamento, in esilio a Tobruk, 1.200 chilometri a Est della capitale, e ora neppure un aeroporto, distrutto dalle brigate islamiche per sfregio agli avversari delle milizie lealiste di Zintan che lo occupavano. Mentre gli islamisti hanno riesumato il Congresso generale nazionale (Gnc), che doveva essere sepolto dalle elezioni del giugno scorso in cui i partiti musulmani erano stati sconfitti, e ha nominato un nuovo premier filoislamista, Omar al Hasi.
Siamo di fronte a una sorta di secessione. Il fronte anti-islamico (Mahmoud Jibril, le brigate di Zintan, il generale Haftar) intende adesso dimostrare che è in corso un golpe che comprende la delegittimazione del Parlamento in esilio a Tobruk il quale a sua volta ha nominato un nuovo capo di stato maggiore per riconquistare Tripoli da mille chilometri: non si sa con quale esercito. I laici vorrebbero quindi spingere i Paesi amici a schierarsi contro le brigate di Misurata alleate degli islamisti.
Un'altra scelta difficile per l'Occidente perché in questa versione della storia ci sono alcune verità - gli islamici stanno tentando il colpo di mano - ma anche molte ambiguità, alimentate proprio dagli pseudo amici di questa disgraziata Libia, «dove non ci sono angeli ma solo molti diavoli», come afferma lo studioso Karim Mezran.
Tripoli è la capitale di un caos che forse prelude a un altro caos, islamico o di altro segno, magari sostenuto dall'esterno, destinato ad assoggettare nuovamente la popolazione. A tre anni dal linciaggio di Gheddafi, la Libia appare quasi irrimediabilmente divisa tra Est e Ovest, tra Tripolitania e Cireanica, in un complesso intreccio di schieramenti, tra islamici, anti-islamici, lealisti ex gheddafiani, clan e tribù, che non si sa neppure più con chi parlare. Stoico lo sforzo dell'ambasciatore italiano Giuseppe Buccino che si ostina, unico occidentale rimasto, a tenere aperti i canali con le varie fazioni. Gli altri hanno fatto le valigie.

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