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Questo articolo è stato pubblicato il 12 settembre 2014 alle ore 11:27.
L'ultima modifica è del 12 settembre 2014 alle ore 13:56.

Il giochino dell'Arabia Saudita è il solito: da decenni finanzia i gruppi più radicali, che in molti casi si ispirano alla dottrina wahabita del regno, per tenerli lontani da casa sua, una monarchia assoluta che applica sistematicamente la pena di morte (19 decapitazioni nel mese di agosto secondo Gulf News) e una versione della sharia, la legge islamica, che fa apparire la tetra Teheran degli ayatollah un'accettabile versione di repubblica islamica.
Questa volta i sauditi offrono persino le basi per addestrare i gruppi ribelli siriani "moderati", gli stessi regolarmente sopraffatti sul campo proprio dalle formazioni jihadiste sostenute da Qatar e Arabia Saudita.
In realtà le monarchie del Golfo intendono fare il colpaccio: fermare il Califfato, diventato un concorrente fuori controllo, e se possibile far fuori anche Bashar Assad, alleato dell'Iran e degli Hezbollah libanesi. Soltanto per questo hanno accettato di far parte della coalizione.
Obama intende bombardare in Siria, dove ci sono le roccaforti più solide del Califfato, senza il permesso di Assad, una mossa che sta irritando Mosca ed è pure fuori dalla logica: le forze siriane e gli sciiti sono gli avversari più agguerriti dell'Isil. Di Assad non ci possiamo fidare ha detto Obama, è un massacratore del suo popolo: ha ragione, ma per quanto sia un pessimo dittatore è un nemico giurato dei jihadisti. E se l'anno scorso gli Stati Uniti avessero bombardato Assad, oggi il califfo Abu Bakr Baghdadi farebbe colazione sulle rovine di Damasco. Dando retta alle monarchie del Golfo si possono anche abbattere i dittatori che a loro dispiacciono tanto perché massacrano gli islamisti sunniti ma ci si può trovare anche con un Califfato a Bengasi, nella stessa città dove l'11 settembre 2012 venne ucciso l'ambasciatore Usa Chris Stevens. La Libia si sta disgregando sotto i nostri occhi senza che la Nato, dopo avere bombardato Gheddafi, muova un dito: con chi bisogna parlarne?
Washington preferisce i soliti sospetti come alleati, cioè le monarchie del Golfo, secondo le quali l'Isil sarebbe una creatura di Assad: in realtà il Califfato ha le sue origini in Iraq, nel ramo di Al Qaeda guidato dal famigerato Abu Musab Zarqawi. E' una creatura del mondo sunnita, non della mezzaluna sciita iraniana o di Assad.
Quanto alla Turchia - dalle cui basi sarebbe più facile attaccare molte postazioni Isil in Siria - tentenna ancora. Ankara ha fatto passare dalle sue frontiere con la Siria (900 chilometri) migliaia di jihadisti e ora non vuole rischiare che il Califatto decapiti 60 ostaggi turchi, tra i quali c'è anche il console di Mosul. Così Kerry incontrerà anche il neo presidente Erdogan, che ormai vuole staccare del tutto la Turchia dal background laico e secolarista abbandonando lo storico palazzo di Cankaya costruito da Ataturk.
È con questa compagnia di piromani pentiti e agenti della destabilizzazione che comincia la guerra di Obama in Medio Oriente: questa volta l'America ha promesso di non schierare truppe sul terreno ma sta dimostrando di non volere cambiare rotta in politica estera. Avanti quindi con i soliti sospetti, sperando questa volta di non lasciarci le penne e di battere la barbarie del Califfato, del tutto inaccettabile ovviamente, ma purtroppo in linea con gli standard della regione.
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