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Questo articolo è stato pubblicato il 21 settembre 2014 alle ore 13:49.
L'ultima modifica è del 21 settembre 2014 alle ore 13:54.

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Pierluigi Bersani (Ansa)Pierluigi Bersani (Ansa)

Bersani, il presidente del Consiglio e leader del suo partito dice che sul lavoro in questi anni i sindacati hanno difeso l'ideologia e non le persone. Si sente anche lei tra i conservatori sul banco degli imputati?
Passare per conservatore proprio no. Con la mia storia mi fa venire l'orticaria. Il problema è che qui serve una vera riforma del mercato del lavoro, non operazioni gattopardesche.

Pensa che Renzi voglia far finta di cambiare tutto per non cambiare niente?
Ho l'impressione che si stanno alzando delle bandiere, si fanno battaglie su slogan, ma poi si raccontano cose che non esistono. Bisogna essere precisi, rigorosi, pragmatici. Sono questioni molto delicate.
Sono indignato che si possa dire che noi stiamo riducendo la precarietà quando la stiamo aumentando.

Veniamo al merito allora. Renzi dice: alleggeriamo un po' la rigidità dei contratti a tempo indeterminato e nello stesso tempo introduciamo vere politiche attive e sussidi per chi perde il posto di lavoro. Cosa c'è che non va?
Il governo in realtà ha fatto una norma che può consentirti di andare a nord, ovest, sud o est. Dopodiché è venuta fuori una interpretazione delle sue intenzioni che, se fosse vera, significherebbe fallire su tutta la linea.

È l'impostazione dei Paesi del Nord Europa, dove il mercato del lavoro funziona e chi perde un posto di lavoro ha ragionevoli possibilità di trovarne un altro.
Il problema è che non basteranno di certo due miliardi a introdurre quel sistema in Italia. La flexicurity alla danese costa almeno 15 miliardi, come facciamo a introdurla domani mattina con la situazione della finanza pubblica che ci ritroviamo?

Si può cominciare a lavorare in quella direzione. Sarebbe ora. Anche perché il mercato del lavoro oggi è spaccato in due e oltre l'80 per cento dei giovani non solo non ha la protezione dell'articolo 18 ma nessuna delle tutele del tempo indeterminato. Il contratto a tutele crescenti, in sostituzione di quello a tempo indeterminato, permetterebbe una maggiore unificazione del mondo del lavoro, eliminando l'attuale discriminazione.
Su questo non c'è nessuna chiarezza da parte del governo. Io penso che il problema numero uno in Italia sia la produttività. Dobbiamo aumentarla. E per farlo è giusto intervenire sul mercato del lavoro. Allora dico innanzitutto che va bene un contratto a tutele progressive, ma questo non può valere solo per i nuovi contratti come è stato detto. Così si andrebbe nella direzione di aumentare la segmentazione del mercato del lavoro mentre si dice di volerla ridurre. Questo sarebbe inaccettabile. Noi abbiamo bisogno appunto di un percorso unificante. Il contratto a tutele crescenti dovrebbe quindi sostituire gran parte dei contratti esistenti, riducendo a tre-quattro le altre tipologie.

Ma cosa vuol dire per lei tutele crescenti? Il nodo della flessibilità è anche qui: non possiamo correre il rischio, in un momento di crisi, di irrigidire ulteriormente il mercato del lavoro. Che poi è quello che è successo con la legge Fornero.
La flessibilità è appunto nelle tutele crescenti. In un periodo iniziale l'imprenditore ha più facoltà di interrompere il rapporto di lavoro, passati due-tre-quattro anni non più.

Quindi dopo tre anni tornerebbe il contratto a tempo indeterminato come lo conosciamo oggi? Articolo 18 incluso?
Possiamo pensare a una maggiore flessibilità, su questo sono apertissimo, anche sull'articolo 18 si può tornare a intervenire cercando di farlo funzionare meglio, ma alla fine la reintegra deve rimanere.

Già con la Fornero si è provato a semplificare la procedura dell'articolo 18, ma l'esito è stato opposto. Oggi il processo è ancora più farraginoso. Non è meglio, invece di inventare formule che non funzionano, sostituire la reintegra con il risarcimento monetario?
Mi rendo conto che l'applicazione dell'articolo 18 sia farraginosa e crei problemi all'azienda, so che c'è un problema enorme di lentezza della giustizia, perciò io dico: interveniamo, proviamo a trovare soluzioni per farlo funzionare meglio, per accelerare tutto. Ma ribadisco: alla fine la reintegra deve rimanere, magari dopo più anni, ma deve rimanere. È una tutela che va garantita.

Non c'è il rischio, in questo modo, di lasciare comunque sulle spalle delle imprese l'onere della garanzia sociale per il lavoratore e la propria famiglia, laddove questa garanzia dovrebbe essere assicurata dallo Stato? Forse nel capitalismo protetto di una volta questo era possibile, ma oggi in un mercato aperto le aziende non riescono più a sostenere questo ruolo.

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