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Questo articolo è stato pubblicato il 22 ottobre 2014 alle ore 12:39.
L'ultima modifica è del 22 ottobre 2014 alle ore 21:22.

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(Afp)(Afp)

Tra le vittime della caduta dei prezzi del petrolio non ci sono solo i più importanti Paesi esportatori, come Arabia Saudita, Russia, Iran o Venezuela. Anche il Califfato islamico guidato dal feroce Abu Bakr al-Baghdadi non ha gradito la discesa verticale delle quotazioni, scese del 25% dai picchi di giugno – 115 dollari al barile – il mese in cui al-Baghdadi annunciò la nascita di quel califfato che si distende tra le piane aride della Siria nordorientale e l'Iraq nordorientale. Un territorio esteso quanto il Regno Unito.

Il petrolio rappresenta ancora la maggiore entrata per le casse del Califfato. Anche il regno del terrore, probabilmente più di tutti, soffre del morbo che affligge molti Paesi arabi esportatori di greggio: la petrodipendenza. Il danno, dunque c'è stato, ma fino a che questo flusso di oro nero contrabbandato con Giordania, Turchia e Iraq non sarà fermato, sarà davvero difficile infliggere all'Isis quel colpo decisivo che da tante settimane la coalizione internazionale si augura.

Perché ogni giorno dal contrabbando di greggio entrano nelle casse del Califfato due milioni di dollari al giorno. Che in un anno fanno quasi ottocento milioni l'anno. È solo l'ultima stima, questa volta calcolata da un rapporto rilasciato ieri dall'americana IHS, basata a Englewood, in Colorado, secondo cui la capacità produttiva in mano all'Isis tra Iraq e Siria sarebbe ormai di 350mila barili al giorno (per quanto ne riesca a produrre non più di 50-60mila barili/giorno).

Denaro utilizzato non solo per le attività militari, ma anche per la propaganda, per forgiare alleanze strategiche con le tribù locali, e in parte per fare andare avanti i sevizi del territorio amministrato dagli estremisti.

Centinaia di raid della coalizione internazionale hanno in parte impedito ai feroci miliziani dello Stato islamico di avanzare militarmente verso altre conquiste. Ma contro le raffinerie e i pozzi non sembrano esser stati così efficaci. Anche perché non è facile colpire le piccole raffinerie “modulari”. Impianti che possono essere montati e smontati, a volte caricati su camion, a seconda delle esigenze e che rappresentano una fonte importante dell'autofinanziamento dello Stato islamico.

«Tutto ciò sta finanziando molte loro attività, sia militari ma anche di altro genere. Supponiamo pure che la loro capacità si sia dimezzata – ha precisato Bushan Bahre, uno degli autori del rapporto – hanno comunque ancora 400 milioni di dollari l'anno di proventi dal petrolio contrabbandato. È molte volte di più di qualsiasi altra forma di finanziamento di cui siamo a conoscenza».

Secondo fonti israeliane citate dal quotidiano Haaretz in settembre il nuovo network del terrore controllava aree con circa 60 pozzi di petrolio attivi. Il greggio sarebbe poi venduto sul mercato nero a prezzi davvero concorrenziali - con sconti del 40-70% - attraverso i porosi confini con Turchia e Giordania. Solo dall'Iraq, produrrebbe dai 25 ai 40mila barili di petrolio al giorno.

Politica e business percorrono strade diverse, a volte incomprensibili. Tanto che tra gli acquirenti del greggio jihadista ci sarebbe o ci sarebbe stato, secondo diversi osservatori, anche il nemico numero uno dell'Isis: il regime di Damasco. E comunque anche Istanbul, che si professa nemico dello Stato islamico, non sembra così intransigente nel cercare di smantellare la rete di contrabbandieri che agiscono soprattutto lungo il confine con l'Iraq settentrionale. Il petrolio dell'Isis arriva così in Turchia da Mosul, in Giordania dalla provincia irachena di al-Anbar e perfino in Iran attraverso il Kurdistan.

«Lo Stato islamico è probabilmente il gruppo terroristico più ricco mai conosciuto» aveva spiegato Matthew Levitte, direttore del programma d'intelligence e antiterrorismo al Washington Institute for Near East Policy. «Non sono integrati nel sistema finanziario internazionale e per questo non sono vulnerabili». Già quest'estate molti analisti ritenevano che la ricchezza in mano all'Isis ammontasse a 2 miliardi di dollari. In principio accumulata con le spettacolari rapine, come quella alla Banca di Mosul (420 milioni di dollari).

Certo, il Califfato, come ogni organizzazione terroristica, si finanzia anche con altri mezzi: sequestri e riscatti, vendita di preziose antichità , tasse, contrabbando di grano (l'Isis controlla il 40% dei raccolti iracheni). Ma nel Pil del terrore queste voci contano davvero poco rispetto all'energia.

Tutta questa ricchezza è indispensabile per portare avanti il regno di al-Baghdadi. Un territorio oppresso da leggi brutali e oscurantiste, dove vengono commessi crimini efferati ai danni della popolazione civile con cadenza quotidiana, dove comunque l'Isis ha cercato di creare un embrione di Stato. Il Califfato si è ormai insinuato in ogni aspetto della vita quotidiana. L'economia, la società, la religione e la cultura. Nulla sfugge al controllo dei suoi amministratori. Ma le tasse estorte ai cittadini, le vessazioni ai danni di chi professa altre fedi, non bastano a rimpinguare le sue casse. Per farlo andare avanti ci vuole il petrolio. Ed è questa una delle battaglie più importanti per la coalizione internazionale: fermare il flusso di oro nero.

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