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Questo articolo è stato pubblicato il 31 ottobre 2014 alle ore 19:13.
L'ultima modifica è del 31 ottobre 2014 alle ore 20:17.

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Articolo 29: l’esclusione delle nuove famiglie
«La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio», recita l’articolo 29 della Costituzione. E qui il commento è stato affidato alla filosofa Michela Marzano, deputata Pd e relatrice della legge sul cognome materno che naturalmente ha difeso («Riconosce alle coppie l’autodeterminazione e prevede che in caso di disaccordo tra i coniugi il figlio abbia entrambi i cognomi in ordine alfabetico»). Per Marzano, parlare di famiglia come «società naturale fondata sul matrimonio» evoca il fantasma dell’innaturalità e dell’artificialità delle altre forme di famiglia, sempre più diffuse. Ma allora la Repubblica non ne riconosce i diritti? oppure deve riconoscere il matrimonio a qualunque tipo di famiglia? Rompicapi contemporanei, cui ci si continua a sottrarre.

Articolo 37: l’equivoco della «donna lavoratrice»
È stata Lea Melandri a rileggere l’articolo 37, quello secondo cui «la donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore» e «le condizioni di lavoro devono consentire l’adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione». Una norma che per Melandri scolpisce la doppia qualificazione della donna: donna e lavoratrice, con il solo “lavoratore” come figura di riferimento su cui si misura il suo svantaggio. Il sottinteso è che per le donne il lavoro considerato produttivo (dagli uomini) si aggiunge alla sua «essenziale funzione» di madre, tutta da proteggere. Insomma: la Costituzione qui rispecchia la visione tradizionale della donna da parte del gruppo maschile. E andrebbe cambiata, ad esempio mettendo nero su bianco che «la cura della famiglia e della casa è responsabilità comune di uomini e donne», fondando su questa base l’organizzazione del lavoro.

Articolo 51: il rebus irrisolto delle quote
La costituzionalista Marilisa D’Amico ha ricordato la faticosa conquista dell’effettiva parità di accesso agli uffici pubblici, pure riconosciuta dall’articolo 51. E ha passato ai raggi X quel comma aggiunto nel 2003: «La Repubblica promuove con appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini». Il dilemma delle quote o, come sarebbe giusto chiamarle, delle “azioni positive” risolto con una «formula troppo debole che non ha costretto la politica». Negli ultimi anni i passi avanti si vedono: la legge 120/2011 sulle società quotate, la legge 215/2012 con la doppia preferenza di genere, le sempre più numerose sentenze dei Tar che bocciano le giunte monogenere. Ma attenzione agli specchietti per le allodole, alle correzioni meramente formali. «Finora la maggiore presenza femminile - ha detto D’Amico - non ha inciso sulla sostanza della vita delle donne». Da dove ripartire, allora? Da sé, come insegnano i movimenti femminili. Dal legame tra generazioni, come scriveva Mariella Gramaglia nella prefazione al libro di Cecilia D’Elia, “Nina e i diritti delle donne”, letta in sala da Lunetta Savino a conclusione dell’evento: «Dipende dalle ragazze e dalle donne battersi per la propria libertà e per una civiltà che la rispetti».

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