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Questo articolo è stato pubblicato il 18 novembre 2014 alle ore 09:45.
L'ultima modifica è del 18 novembre 2014 alle ore 20:40.

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(Reuters)(Reuters)

Lo spettro di una terza Intifada incombe su Israele. I precedenti, ormai, sono tanti, troppi. Non è ancora chiaro quale sia il movente e il preciso mandante dell’efferato attacco terroristico di oggi contro una sinagoga, una strage contro civili israeliani inermi. Potrebbe essere l'iniziativa di cani sciolti, un commando diretto da Hamas oppure altro. Ma è comunque indubbio che l'esasperazione tra la popolazione palestinese dei Territori ha toccato livelli che non si vedevano da diversi anni.

La tensione è riesplosa da quando Marwan Barghouti, ex leader delle brigate Tanzim , quelle che un tempo erano il braccio armato del partito Fatah, ha invocato la III intifada dalla prigione israeliana in cui deve scontare una condanna di cinque ergastoli.

In verità da tempo il fuoco covava sotto la cenere. La nuova stagione dei disordini si è manifestata dopo il rapimento e la barbara uccisione di tre giovani studenti ebrei di una scuola, lo scorso giugno, nei pressi della città palestinese di Hebron. I sospetti erano caduti su Hamas. Ma il successivo atto di rappresaglia ai danni di un ragazzino palestinese di 16 anni, rapito e bruciato vivo mentre stava raggiungendo una moschea nel rione di Beit Hanina, a Gerusalemme, aveva innescato una scia di violenze che, per una ragione o per l'altra, si trascina ancora oggi. Ramallah, Gerusalemme, i palestinesi scesero in piazza a sfogare la loro frustrazione, dando fuoco a cassonetti e auto, tirando pietre, infrangendo vetrine.

La violenta guerra tra Israele ed Hamas scoppiata in luglio, e le centinaia di vittime civili, hanno poi inasprito gli animi. Anche quelli di molti palestinesi ostili ad Hamas. Ma è difficile che una guerra nella Striscia a Gaza dia fuoco alle polveri in Cisgiordania. Dal 2007 le due entità sono di fatto due Stati separati, “Hamastan” e “Fatahland”. E l'ultima tregua tra il movimento islamico padrone di Gaza e Fatah, signore della Cisgiordania, non ha poi cambiato così tanto la realtà sul campo.

Gli ingredienti per fare scoppiare un’Intifada, come quelle del 1987 e del 2000, sono la chiusura dei luoghi di culto, in primo luogo la spianata delle Moschee a Gerusalemme Est, l'espansione degli insediamenti nei Territori palestinesi, l'occupazione di case arabe da parte di coloni israeliani, gli attentati palestinesi, i disordini a Gerusalemme e le repressioni delle forze dell'ordine.

Quello che, in parte, è avvenuto a fine ottobre, quando le autorità israeliane hanno chiuso agli arabi la spianata delle due moschee. Una misura precauzionale assunta da Israele dopo che la sera prima un attentatore palestinese aveva sparato a uno dei capi di un gruppo nazional-religioso ebraico. Poi sono arrivati gli attentati fai-da-te. Messi in atto da terroristi che appaiono più cani sciolti, impregnati di rabbia, piuttosto che commandi di professionisti addestrati da Hamas. Prima di oggi, la mattina del 5 novembre, un uomo, considerato componente di Hamas, ha travolto con un furgone alcuni passanti nella zona di Gerusalemme est nel rione di Sheikh Jarrah, uccidendo una persona e ferendone dieci. Due settimane prima un altro palestinese si era lanciato con il suo mezzo contro un gruppo di persone in attesa alla fermata del tram, uccidendo una bambina di tre mesi.

Hamas ha rivendicato l'attentato di ieri, spiegando come l'attacco sia la rappresaglia alla tensione sulla Spianata delle Moschee ma anche all'uccisione - un suicidio secondo la polizia israeliana - dell'autista di autobus palestinese di una ditta israeliana. Un caso ancora aperto. L'uomo si chiamava Yusuf Hasan al Ramuni, 32enne padre di due bambini, residente nel quartiere di Ras al Amud, sul Monte degli Ulivi, a Gerusalemme Est. È stato trovato morto impiccato nella notte tra domenica e lunedì nella zona industriale di Har Hotzvim, a Gerusalemme Ovest.

Tumulti, terroristi-fai-da te, rappresaglie. Qualcosa sta implodendo nella società palestinese. La rabbia, partorita da anni di frustrazione, ha preso ora il sopravvento. Perché la frustrazione si è nutrita dell'immobilità politica, di un processo di pace paralizzato da anni, che suona come una beffa per molti palestinesi. La frustrazione è stata alimentata da quegli insediamenti che continuano ad espandersi all'interno dei territori palestinesi nonostante le condanne della Comunità internazionale.

La rassegnazione palestinese verso quello “Stato che verrà” - per ora un'utopia – si è unita a una situazione economica molto difficile. Il processo di pace è fermo perché, alla fine, nessuno dei due belligeranti sembra desiderarlo. Né l'attuale Governo israeliano, né, e forse in misura ancora maggiore, Hamas. Con i suoi attacchi , le istigazioni all'odio e alla violenza, il movimento islamico sa benissimo di ottenere l'esatto contrario. E continua a farlo.

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