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Questo articolo è stato pubblicato il 26 novembre 2014 alle ore 13:51.
L'ultima modifica è del 26 novembre 2014 alle ore 20:09.

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A un certo punto, in tarda serata, mi sono trovato nel bel mezzo della protesta sulla Franklin Delano Roosevelt Drive, la circonvallazione che corre lungo l'East River. La strada era bloccata. I guidatori infuriati. La polizia impotente. Viaggiando in direzione Nord, poco lontano dal Williamsburgh Bridge, uno dei ponti che porta a Brooklyn, ho visto un centinaio di dimostranti davanti a un muro di poliziotti: cercavano di sfondare lo sbarramento per poter marciare sul ponte e arrivare da Manhattan a Brooklyn. Ma la polizia non li ha fatti passare. Ci sono stati piccoli tafferugli e alcuni arresti, ma nulla di grave. La percezione del cronista sulla scena è che il tutto avvenisse per il beneficio delle telecamere e dei fotografi. Lo stesso si è verificato a Los Angeles, a Washington dove un gruppo di dimostranti si è assiepato davanti all'ingresso della Corte Suprema, per la strade di Philadelphia, a Miami e in altre città della Florida, dove la memoria dall'assassinio di un diciassettenne, Trayvon Martin, per mano del “vigilante” George Zimmerman, prosciolto, è ancora freschissima.

Ma la prima sensazione è che questa protesta sia più organizzata che spontanea. Nei cortei ci sono numerosi bianchi. L'occasione è quella di protestare per tutto quello che non funziona in quest'America caratterizzata da un ripresa economica a macchia di leopardo, da un benessere non redistribuito, da un'occupazione in crescita, ma poco soddisfacente, sia sul piano della qualità dei lavori offerti che su quello della remunerazione, bassissima per i neri, ma molto bassa anche per molti bianchi.

A Ferguson, dove si trova l'epicentro dei disordini, per evitare il ripetersi dei gravissimi incidenti di lunedì notte, il governatore aveva deciso ieri notte di rafforzare lo schieramento della Guardia Nazionale, l'esercito locale, dello stato, portando il numero di soldati fino a 2200. E in effetti pur con dimostrazioni sparse nei quartieri vicini al luogo del delitto e alla centrale di polizia, la notte è stata molto più tranquilla, meno violenza, piccoli tafferugli, solo 45 arresti.

Molti intanto riflettono sull'intervista concessa alla ABbcda Darren Wilson, un ragazzo anche lui, un poliziotto che ha ammesso di essere stato preso dal panico, di essersi reso conto che il giovane Mike marciava verso di lui incurante della pistola puntata e dell'ordine di mettersi a terra. «Mi aveva attaccato in macchina, sono sceso, gli intimavo di fermarsi e mettersi a terra, ma continuava a venirmi contro e ho sparato». Un racconto che suona molto spontaneo. Ma la piccola (per ora) rivolta americana del 2014 non è solo per l'uccisione di Mike. È per i continui suprusi della polizia, per gli abusi di potere, per il racial profiling contro i neri, per gli incidenti che si verificano sempre più spesso e purtroppo sempre più spesso mortali, come quello di giovedi scorso a New York: il poliziotto Peter Liang, giovane e inesperto, ha ucciso Akai Gurley 28 anni, padre di due bambine. Akai, con la sua ragazza, stanco di aspettare un ascensore che non arrivava mai ha deciso di prendere le scale. Quando ha imboccato la rampa del settimo piano, in alto, sulla porta che portava al piano, c'era Liang con un altro poliziotto. Liang aveva la pistola in mano, senza sicurezza, cercava di entrare sul piano per controllare la situazione in questo palazzo, parte di un complesso popolare, di un “project” fra i più malfamati della città.

L'ombra di Akai per le scale, la porta inceppata, la pistola in mano, un movimento brusco e un colpo parte accidentalmente. Colpisce Akai al torace uccidendolo quasi sul colpo. L'unico problema? Non c'era niente di accidentale nel fatto che il poliziotto Liang avesse una pistola in mano. Nel palazzo non c'era un crimine in atto, non c'era una battaglia fra gang, i poliziotti stavano solo perlustrando. Ma la pistola era fuori lo stesso. E ha ucciso l'ennesimo nero americano, giovane e innocente. Domani è il Thanksgiving. Tutti sperano in una tregua. Anche se la tentazione di drammatizzare la situazione nel giorno in cui l'America mangia il tacchino del ringraziamento è forte.

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